3. Non pronunciare il nome del Signore, Dio tuo invano... (Esodo 20,7)

Non pronunciare il nome del Signore, Dio tuo invano;  perché il Signore non riterrà innocente chi pronuncia il suo nome invano

Dio ha un nome. È un fatto su cui forse non ci fermiamo molto spesso a riflettere, perché nella nostra preghiera e nel nostro culto non usiamo il nome di Dio, e anche nella traduzione della Bibbia in italiano non è così evidente che Dio abbia un nome e quale esso sia. Per questo è bene che ci fermiamo un momento sul racconto del terzo capitolo dell’Esodo, in cui Dio rivela il suo nome a Mosè.
Mosè si trova nel paese di Madian, dove era fuggito dopo aver ucciso un egiziano per timore di essere a sua volta ucciso. Qui si era sposato e lavorava con il suocero come pastore di pecore. Mentre andava in cerca di buoni pascoli per le sue pecore, aveva visto un pruno che bruciava ma non si consumava mai. In quel momento Dio inizia a parlargli.
Dio vuole rimandarlo in Egitto allo scopo di liberare Israele dalla schiavitù e condurlo nella terra promessa. Mosè a un certo punto chiede a Dio quale sia il suo nome. Se infatti gli israeliti gli chiederanno chi è che lo ha mandato, Mosè dovrà saper dire loro il nome di Dio.
E Dio rivela a Mosè il suo nome. Un nome, a dire il vero, piuttosto enigmatico. Il nome di Dio in ebraico è composto da quattro lettere, quattro consonanti, perché nell’ebraico si scrivono soltanto le consonanti, mentre le vocali vengono solamente pronunciate, ma non scritte. Questo nome ha un significato un po’ enigmatico e vuol dire all’incirca “colui che è”.
Gli ebrei hanno preso molto sul serio questo comandamento e, per evitare di nominare il nome di Dio invano, hanno deciso di non nominarlo mai, cioè di non chiamarlo mai per nome, proprio per evitare ogni possibilità di abusare del nome di Dio.
Questo è il motivo per cui oggi non si conosce più come venisse pronunciato il nome di Dio. Di questo nome sappiamo solo le consonanti, che trasportate nel nostro alfabeto sono j h w h, ma non siamo più in grado di pronunciarlo e nemmeno di tradurlo.
Per tradurlo, si segue l’uso degli ebrei: ogni volta che nella Bibbia incontrano il nome di Dio, essi leggono Adonai, che vuole dire “Signore”. Allo stesso modo la nostra traduzione della Bibbia, traduce il nome di Dio con Signore, scrivendolo in maiuscoletto.

Che cosa significa questo enigmatico nome di Dio? O che cosa significa l’altra altrettanto enigmatica risposta di Dio a Mosè quando Dio dice: “io sono colui che sono”? Queste affermazioni di Dio hanno fanno diventare matti gli studiosi della Bibbia.
Un po’ di aiuto ce lo dà la grammatica. In ebraico il verbo essere significa soprattutto esserci, essere presente. Il nome di Dio esprime il fatto che Dio è presente, è lì per Israele, è vicino a Israele.
E l’affermazione “io sono colui che sono” significa che Dio è sempre uguale nel tempo, cioè che è sempre fedele a se stesso e alle sue promesse. In questo senso il nome di Dio è già una promessa: Dio dice a Israele che è al suo fianco e sarà sempre al suo fianco, che agisce in suo favore e agirà sempre in suo favore.
Il nome nella Bibbia ha una grande importanza. I nomi esprimono sempre qualcosa di chi li porta, e nei momenti cruciali della loro vita Dio cambia il nome delle persone, per esempio Giacobbe diventa Israele, diventa cioè il progenitore di un popolo. Nel racconto della creazione, l’essere umano è incaricato di dare il nome agli animali, e questo esprime il fatto che essi gli saranno sottomessi. Dio invece non riceve il suo nome da nessuno. È l’unico, nella Bibbia, che si dà il proprio nome, poiché Dio non è sottoposto a nessuno.
Dopo questa lunga ma necessaria premessa, possiamo ora ritornare da dove eravamo partiti: Dio ha un nome.
Avere un nome significa potere essere chiamati; potere essere trovati, potere essere invocati. Il nome di Dio si può usare; è vietato l’abuso del nome di Dio, ma non il suo uso.
Avere un nome vuol dire essere un soggetto, una persona. Quando il nome ti viene tolto, ti viene tolta anche la tua personalità, e diventi un oggetto, come per esempio i prigionieri nei lager nazisti, che non avevano più il loro nome, ma erano ridotti a essere un numero. Dio dunque è una persona, una persona con la quale si può dialogare e discutere; di questo vi sono nella Bibbia molti esempi.
La conoscenza del nome stabilisce una relazione, un rapporto, un dialogo. Dio è un “Tu” e in un certo senso possiamo dire che Dio, rivelandoci il suo nome, ci autorizza a dargli del tu. Così come il nostro nome non serve tanto a noi, quanto agli altri, affinché gli altri ci possano chiamare, allo stesso modo, il nome di Dio non serve a Dio, ma a noi, che così lo possiamo chiamare per nome.
Dio vuole dunque dialogare con noi, intende ascoltarci. Un Dio che ci dona il suo nome affinché lo chiamiamo, è un Dio che è disposto ad ascoltare quello che abbiamo da dire. Non è un Dio autoritario, ma un Dio che interpella gli esseri umani e che si lascia interpellare dagli esseri umani. Dio ci dà il suo nome, affinché noi lo usiamo per chiamarlo, invocarlo, e stabilisce così una relazione con noi.
Non è quindi vietato l’uso del nome di Dio, come è vietato per esempio l’uso delle immagini di Dio. È però vietato l’abuso del nome di Dio. 
 
E l’abuso non consiste tanto nel pronunciare il nome di Dio in modo inopportuno, come per esempio nel caso della bestemmia. Il significato del comandamento è molto più profondo e non si limita al nostro parlare.
Non pronunciare il nome del Signore, Dio tuo invano” significa non coinvolgere Dio in parole, pensieri, azioni e avvenimenti che sono contrari alla sua volontà. Si potrebbe anche dire: non usare Dio, non tirarlo in ballo per giustificare o per coprire ingiustizie, inganni, violenze, oppressioni.
Uno degli esempi di abuso del nome di Dio che fa la Bibbia – e di cui parla anche un altro comandamento – è il giurare il falso in un processo. Falsare la verità e la giustizia in nome di Dio è molto grave ed è un abuso del suo nome.
Ma la storia è piena di abusi del nome di Dio: la prima cosa che ci viene oggi in mente è l'abuso del nome di Dio che fanno i terroristi quando gridano “Dio è grande” mentre uccidono le loro vittime.
È così, ogni volta che si è condotta una guerra o si è usata violenza nel nome di Dio, si è abusato del suo nome. Pensiamo alle crociate o a un certo tipo di evangelizzazione dei paesi del sud del mondo, fatta di conversioni forzate e battesimi di massa.
Abbiamo detto parlando del prologo al decalogo che i dieci comandamenti sono le istruzioni per l’uso della libertà che Dio ha donato a Israele facendolo uscire dall’Egitto, le regole che servono a Israele per vivere nella pace, nella libertà e nella giustizia.
Dunque ogni volta che nel nome di Dio la libertà è offesa, la giustizia non è praticata, la pace è messa in pericolo, questi sono usi vani del nome di Dio.
Ma forse, più che si un elenco di abusi del nome di Dio, a noi servono dei criteri per distinguere l’uso dall’abuso. Paolo Ricca ha scritto che si abusa del nome di Dio ogni volta che lo si usa senza fede o senza amore. Senza la fede in lui e senza l’amore che Gesù ha vissuto e predicato, Dio è chiamato in causa invano.
Un altro criterio può essere il seguente: si abusa del nome di Dio ogni volta che lo si chiama in causa per riempire un vuoto. Quando si usa Dio come tappabuchi. Quando non si sa più a chi o che cosa rivolgersi, quando la nostra fiducia in noi stessi, nelle nostre capacità, nella fortuna, nella scienza, ecc. viene meno, allora può capitare di ricordarsi di Dio.
Quando nient’altro può riempire il nostro vuoto, e solo allora, Dio viene invocato. Questo è un abuso del nome di Dio. Dio non è una ruota di scorta che si tira fuori solo quando le cose non vanno più avanti da sole. Dio non vuole essere l’ultima spiaggia. Dio vuole essere invocato nel bisogno, ma non solo nel bisogno.
E infine c’è ancora una cosa da ricordare. Noi che ci diciamo cristiani, portiamo cucito addosso il nome di Gesù Cristo, “il nome che è al di sopra di ogni nome” come abbiamo letto nella lettera ai Filippesi. Questo nome noi ce lo portiamo addosso, questo vuol dire che con il nostro comportamento noi rendiamo testimonianza al nome di Cristo.
Possiamo rendergli una buona o una cattiva testimonianza, e chi vede noi cristiani, attraverso di noi vede Cristo. Il nome di Dio, dunque non è solo qualcosa che si dice, che si pronuncia con la bocca, ma lo si pronuncia anche con la propria vita.
Non è questione di perfezione, di essere moralmente ineccepibili, quanto piuttosto di mostrare chi è Dio attraverso la nostra vita. Di mostrare l’amore di Dio attraverso il nostro amore, il suo perdono attraverso il nostro perdono, i suoi doni attraverso la nostra gratitudine, le sue promesse attraverso la nostra speranza.
Gesù ha detto queste parole che sono un ottimo commento a questo comandamento: “Non chiunque mi dice: Signore, Signore! entrerà nel regno dei cieli, ma chi fa la volontà del Padre mio che è nei cieli”.
Nel nome di Dio e di Gesù Cristo siamo chiamati a ringraziare, a lodare, a sperare, a gioire, anche a chiedere e a supplicare. Con la certezza che ogni volta che facciamo tutto questo con piena fiducia e con profondo amore non avremo pronunciato il nome di Dio invano.


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