sabato 30 dicembre 2017

Predicazione di Natale 2017 su Isaia 7,10-14 a cura di Marco Gisola

NATALE 2017 

Isaia 7,10-14
(letture: Luca 2,1-21; 2 Corinzi 12,1-10)

Il SIGNORE parlò di nuovo ad Acaz, e gli disse: «Chiedi un segno al SIGNORE, al tuo Dio! Chiedilo giù nei luoghi sottoterra o nei luoghi eccelsi!» Acaz rispose: «Non chiederò nulla; non tenterò il SIGNORE». Isaia disse:
«Ora ascoltate, o casa di Davide! È forse poca cosa per voi lo stancare gli uomini, che volete stancare anche il mio Dio?
Perciò il Signore stesso vi darà un segno: Ecco, la giovane concepirà, partorirà un figlio, e lo chiamerà Emmanuele. 
 
Un brano non così noto ci è proposto quest’anno come testo della vigilia di Natale. Non così noto, ma molto importante per l’interpretazione della nascita di Gesù, perché è in questo testo di Isaia che il profeta dice che la “giovane” partorirà un figlio cui sarà dato nome Emmanuele. La traduzione greca dell’Antico Testamento tradurrà quel “giovane”, che indicava una giovane ragazza, con “vergine”, in modo che questo brano di Isaia diventò una conferma della nascita di Gesù da Maria vergine per opera dello Spirito Santo.
Il testo inizia con un breve dialogo tra Dio e il re Acaz. Il re Acaz non si fida di Dio, ha paura dei nemici che minacciano di attaccare Israele e si preoccupa. Dio vorrebbe che non si preoccupasse, perché c’è lui a proteggere Israele, ma come ben sappiamo è molto umano ed è più facile contare sulle proprie forze che confidare in Dio. E così Dio invita Acaz a chiedere un segno, per poter recuperare la fiducia in Dio. Ma Acaz rifiuta di chiedere un segno, non vuole tentare il Signore, dice. Questo rifiuto però non piace a Dio, che manda il profeta a dire a tutto il popolo che lui un segno lo darà alla casa di Davide e questo segno sarà che una giovane partorirà un bambino. Gli studiosi dicono che probabilmente si riferiva al re che avrebbe sostituito il re Acaz e che sarebbe stato, questa volta, un re giusto e fedele.
Ma questo brano è stato interpretato dai cristiani in senso messianico e riferito a Gesù. Fin qui il testo in sé, che per i cristiani è diventato una profezia riferita alla nascita di Gesù. La nascita è definita un “segno”. Dio aveva proposto al re di scegliere lui un segno, quello che voleva: “Chiedilo giù nei luoghi sottoterra o nei luoghi eccelsi!”.
Che cosa chiederemmo noi? Un segno cosmico che coinvolga il cielo e la terra? Un segno portentoso come la guarigione di questo o di quell’ammalato, o meglio ancora di tutti gli ammalati? La fine della fame e della guerra? Insomma, potremmo sbizzarrirci e dare sfogo a tutti nostri desideri, ovviamente ai più belli e ai più giusti: pace, giustizia, libertà…. Ma non siamo noi a scegliere il segno, è Dio che lo sceglie per noi. E che cosa sceglie? Un bambino… la nascita di un bambino. Non dobbiamo fermarci all’aspetto romantico del bambino, che fa tanta tenerezza; ogni bambino che nasce fa molta tenerezza…
Ma il profeta non si ferma al neonato, nel bambino lui vede l’uomo che diventerà; anche perché a quei tempi un bambino non faceva probabilmente tanta tenerezza come fa a noi ora. Un bambino era un uomo in formazione, da uomo sarebbe stato prezioso e utile, per lavorare, per fare la guerra, per fare una famiglia…. Da bambino era semplicemente un uomo in divenire, un futuro uomo, era ancora troppo debole troppo fragile, troppo bisognoso per essere prezioso.
Ma proprio per questo è significativo che Dio scelga un bambino come segno, dunque un segno fragile, che non da subito i suoi frutti. La stessa parola "segno" è usata per indicare Gesù ai pastori (Luca 2,12): "questo vi servirà di segno: troverete un bambino avvolto in fasce e coricato in una mangiatoia". Gesù che nasce a Betlemme è per noi questo segno. Gesù che nasce a Betlemme è per noi questo segno. 
 
1. È un segno fragile. Ce lo dice tutta la storia del Natale; Luca ci racconta la storia del censimento, del viaggio di Giuseppe e Maria, del fatto che non c’è posto per loro nell’albergo, della mangiatoia che si trova in una stalla o in una grotta adibita a stalla… e poi i pastori, uomini impuri a causa del loro mestiere che sono i primi a visitare Gesù e ad adorarlo.
Matteo ci racconta la storia della strage degli innocenti, cioè dei bambini che il re Erode fa uccidere perché è geloso e vuole eliminare colui che pensa possa essere il suo rivale. E poi la storia dei Magi, uomini saggi, astronomi che vengono da lontano ad adorare Gesù… Insomma una storia di persone marginali, che stanno alla periferia della società e della storia. Un segno fragile, che in sé sembra non aver nulla da dire, un bambino che non si distingue da tutti gli altri bambini che nascevano, che nascono e che nasceranno in questo mondo.
Gesù sarà un segno fragile dall’inizio alla fine, e soprattutto alla fine, nella passione e nella croce, verrà fuori tutta la sua fragilità. È un segno volutamente fragile, perché Dio ha voluto con l’incarnazione rivelarsi attraverso la fragilità umana. Ma rivelarsi attraverso la fragilità umana non vuol dire per Dio essere meno Dio. Dio, in Gesù di Nazaret, nel neonato nella mangiatoia, è altrettanto Dio di quando separava le acque del Mar Rosso per portare Israele fuori dall’Egitto, altrettanto Dio di quando faceva trovare la manna nel deserto e faceva scaturire acqua dalla roccia per dissetare il suo popolo.
La fragilità di Gesù è la forza di Dio, è la forza del regno che Gesù porta in prima persona. Perché forza, se Dio qui sembra così debole? Perché a Pasqua Gesù vincerà su quelli che lo hanno crocifisso e vincerà di una vittoria del tutto particolare, vincerà dopo aver perdonato chi lo aveva ucciso. È la forza di chi vuole vincere senza sconfiggere, senza annientare, è la forza dell’amore e del perdono. Lo aveva capito bene l'apostolo Paolo, che ci ha lasciato nelle sue lettere alcune affermazioni che sono delle perle teologiche: nel brano che abbiamo letto afferma “quando sono debole, allora sono forte”.
Sì, perché ciò che Dio ha fatto in Gesù è di esempio anche per noi, o meglio è la nostra realtà: siamo deboli, ma la Parola di Dio ci dice che in questa nostra debolezza sta la nostra forza. Non la forza dei muscoli, ma della fede, non la forza delle armi, che fanno male, ma del perdono, che fa bene a chi lo offre e a chi lo riceve. Questa è la forza della debolezza, questa è la forza di Dio che si incarna nella fragilità umana del neonato di Betlemme e vuole agire attraverso ciascuno e ciascuna di noi, uomini e donne fragili, eppure amati e amate da Dio, che ci ha riscattati in Cristo. 
 
2. Una seconda caratteristica di questo segno è che esso indica il futuro. La giovane concepirà, partorirà, non è ancora successo nulla, tutto deve ancora avvenire. E anche quando il bambino sarà nato, un neonato è un futuro adulto, non può ancor fare nulla. Tutto è ancora di là da venire. Anche per Gesù bisognerà aspettare trenta anni prima che possa iniziare il suo ministero pubblico. Deve prima diventare adulto, il neonato Gesù è ancora soltanto un segno. E anche da adulto, Gesù annuncerà il suo regno che è un regno futuro; che è già presente ogni volta che un essere umano è guarito, perdonato e liberato da Gesù, ma è un regno che attende il suo compimento finale e totale nel futuro. È stato così in tutto il ministero di Gesù ed è così anche dopo Pasqua: Gesù è risorto, ma attendiamo il compimento del suo regno futuro. La fede cristiana è una fede protesa verso il futuro: attende il futuro, prega per il futuro, spera nel futuro e lavora per il futuro.
Se ci pensiamo bene anche i gesti liturgici che celebriamo insieme, che nella storia sono stati chiamati sacramenti ma che chiamiamo appunto anche “segni”, sono segni che condividono queste due caratteristiche: sono segni fragili e guardano al futuro. Sono radicati nel passato, nella storia di Gesù, ma sono come un dito che indica dritto verso il futuro di Dio. Il battesimo è il segno che “significa” la morte e resurrezione di Cristo e che ci dice che Cristo è morto e risorto per tutti e quindi anche proprio per quella persona – bambino o adulto che sia – che viene battezzata. È il segno della nostra redenzione che è già avvenuta in speranza, ma non è ancora evidente; è il segno della nostra vita nuova che siamo chiamati ogni giorno a vivere, ma non è mai ancora realizzata. La Cena è memoria dell’ultima cena, che a sua volta prefigura la morte di Gesù, ma è anche segno del regno che viene, quel regno in cui – come leggiamo nelle parole dell’ultima cena – Gesù berrà il frutto della vigna “nuovo” insieme a noi. Tutto ciò che facciamo e diciamo avviene perché Cristo è venuto e ha promesso di tornare e dunque viviamo, crediamo e speriamo in vista del suo ritorno, in vista del futuro. 
 
Gesù che nasce a Betlemme è segno della promessa di Dio. Il segno non è una prova, ma appunto un segno, un qualcosa che significa qualcos’altro; proprio come il neonato di Betlemme coricato nella mangiatoia non dimostra nulla della sua messianicità e della sua regalità, eppure è messia e re. Il Gesù neonato è un segno al contrario, che mostra debolezza e fragilità, mentre noi vorremmo da Dio forza e potenza; che indica il futuro mente noi vorremmo Dio in azione qui e subito. Il segno del Natale non dimostra nulla, eppure chiede la nostra fiducia.
Solo un segno, eppure un segno; segno della promessa di Dio, segno che contiene in sé tutto ciò che sarà.
L'Emmanuele, “Dio con noi”, è “con noi” in questo modo: come una presenza fragile che ci spinge a guardare al futuro, un segno di pace in un mondo di conflitti; un segno di gioia in un mondo in cui troppi esseri umani sono tristi; un segno di speranza in un mondo in cui troppe persone disperano di se stesse e della loro vita.
Solo un segno, eppure un segno. Gesù nasce, Gesù viene; nel neonato coricato nella mangiatoia abbiamo un segno, un segno delle grandi cose che Dio ha promesso di fare per noi e che ha fatto nella vita, morte e resurrezione di suo figlio. Il Signore è fedele e mantiene le sue promesse. Questo segno ci è dato, la promessa di Dio ci è data. Ciò che è iniziato quella notte a Betlemme non lo ha fermato nemmeno la croce e non può essere fermato.
In questo segno e in questa promessa si fondano tutta la nostra fede, tutta la nostra speranza e tutta la nostra gioia.

venerdì 1 dicembre 2017

Predicazione di domenica 26 Novembre 2017 su Apocalisse 21,1-8 a cura di Daniel Attinger

LA GERUSALEMME CELESTE !
Biella (ultima dom. dell’anno liturgico), 26 novembre 2017

Testi delle letture: Apocalisse 21,1-8 ; Luca 19,41-44

Ap 21 1 Poi vidi un nuovo cielo e una nuova terra, poiché il primo cielo e la prima terra erano scomparsi, e il mare non c’era più. 2 E vidi la santa città, la nuova Gerusalemme, scen­dere dal cielo da presso Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo. 3 Udii una gran voce dal trono, che diceva: “Ecco il tabernacolo di Dio con gli uomini! Egli abiterà con loro, essi saranno suoi popoli e Dio stesso sarà con loro e sarà il loro Dio. 4 Egli asciugherà ogni lacrima dai loro occhi e non ci sarà più la morte, né cordoglio, né grido, né dolore, perché le cose di prima sono passate”.
5 E colui che siede sul trono disse: “Ecco, io faccio nuove tutte le cose”. Poi mi disse: “Scrivi, perché queste parole sono fedeli e veritiere”, e aggiunse: 6 “Ogni cosa è compiuta. Io sono l’alfa e l’omega, il principio e la fine. A chi ha sete io darò gratuita­mente della fonte dell’acqua della vita. 7 Chi vince erediterà queste cose, io gli sarò Dio ed egli mi sarà figlio. 8 Ma per i codardi, gli increduli, gli abominevoli, gli omicidi, i fornicatori, gli stregoni, gli idolatri e tutti i bugiardi, la loro parte sarà nello stagno ardente di fuoco e di zolfo, che è la morte seconda”.

Mc 13 41 Quando fu vicino, vedendo la città, pianse su di essa, dicendo: 42 «Oh se tu sapessi, almeno oggi, ciò che occorre per la tua pace! Ma ora è nascosto ai tuoi occhi. 43 Poiché verranno su di te dei giorni nei quali i tuoi nemici ti faranno attorno delle trincee, ti accerchieranno e ti stringeranno da ogni parte; 44 abbatteranno te e i tuoi figli dentro di te e non lasceranno in te pietra su pietra, perché tu non hai conosciuto il tempo nel quale sei stata visitata».

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Cari fratelli e sorelle,

Con questa domenica giungiamo al termine dell’anno liturgico; domenica prossima, infatti, inizierà il tempo di Av­vento, tempo che ci convoca per un nuovo inizio e ci ricorda che ogni giorno occorre ricominciare – forse non proprio da capo –, e che, soprattutto a una certa età, si deve sempre rimettere in moto la nostra macchina: il nostro corpo e la no­stra mente per essere pronti per la venuta del Signore.
L’ultima domenica dell’anno liturgico insiste forse meno sul da fare; mette invece in evidenza ciò che aspettiamo. Detto in modo sintetico: se il tempo dell’Avvento è tempo di vigilanza, questa domenica conclusiva del periodo liturgico è giorno di speranza. La litur­gia delle Chiese valdesi propone come lettura di meditazione per questa domenica il bel testo che abbiamo letto nell’Apocalisse di Giovanni, testo che annuncia che non aspettia­mo solo la venuta del Signore nella sua gloria, ma anche la manifestazione della città san­ta, la Gerusalemme nuova.

Come voi, non ho visitato, né visto la Gerusalemme celeste; ho invece vissuto a lungo nella Gerusalemme terrestre, dalla quale la città che aspettiamo prende il nome. Ciò signi­fica che esiste un certo legame tra queste due città. Nel lungo tempo vissuto a Gerusalem­me, una cosa mi ha sempre intrigato: perché la città che aspettiamo porta questo nome? Perché non si chiama la Roma eterna, la New York celeste o la Ginevra di lassù?
Una prima risposta, banale, potrebbe essere che queste ultime città, a parte Roma, non esistevano al tempo della prima comunità cristiana, e Roma era la potenza di occupa­zione, perciò nell’Apocalisse è paragonata alla grande Babilonia, la città perfida per eccel­lenza. Ma se la Scrittura non poteva prendere queste città come punto di riferimento, c’era la splendida città di Alessandria, o anche la prestigiosa Antiochia: due capitali orientali dell’Impero romano del tempo. Perché proprio Gerusalemme?
Evidentemente, la risposta sorge immediata dall’Antico Testamento: Gerusalemme è la città per eccellenza del popolo ebraico, perché là Dio aveva deciso di porre il suo nome e là sorgeva il tempio. Era quindi normale che un credente nutrito di Scrittura pensasse a un avvenire centrato su una nuova Gerusalemme. Ma un cristiano potrebbe dire che Gesù ha messo fine a questa visione quando ha spiegato alla donna samaritana che era giunta l’ora in cui non si sarebbe più adorato Dio sul monte Garizim o a Gerusalemme, perché Dio voleva essere adorato in Spirito e Verità (cf. Gv 4,21).
Tutto ciò è vero, ma è dimenticare che Dio non è una macchina o un robot: è un Dio che in un certo modo ci assomiglia, poiché ha fatto di noi la sua immagine. E la Scrittura non cessa di parlare del “cuore di Dio”. Ciò significa che Dio conosce, come noi, le emozio­ni. Anche in Dio c’è una passione: una passione di amore per noi!
Ebbene, Dio prova un amore particolare per Gerusalemme, quella di quaggiù. Lo dice un bel testo del profeta Isaia che riferisce questa parola di Dio per Gerusalemme:

Una donna dimentica forse il suo bambino,
così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere?
Anche se costoro si dimenticassero, io non ti dimenticherò.
Ecco, sulle palme delle mie mani ti ho disegnato,
le tue mura sono sempre davanti a me (Is 49,15-16).

Dio è talmente innamorato della Gerusalemme terrestre che ne ha inciso la piantina sulle palme delle sue mani per poter, con questo modello, edificare la Gerusalemme cele­ste. Il che ci può rassicurare su quella città futura, perché se fosse come la descrive l’Apo­calisse allora potremmo essere presi da incubi. Secondo Ap 21, infatti, la Gerusalemme celeste è un gigantesco cubo di 3000 km di lunghezza, di altezza e di larghezza. Per di più è cinta di mura di ben 60 m di altezza e le sue piazze sono lastricate di oro. Chi vorrebbe vivere in una tale città? Questi dati sono evidentemente simbolici … ma preferisco imma­ginare la città del futuro come la città vecchia di Gerusalemme, con le sue viuzze, i suoi rumori, i suoi bambini e i suoi odori di mille spezie mescolate.

Forse direte: cosa c’entra tutto ciò con l’Evangelo? C’entra, eccome! Evidentemente non per dirci come sarà la Gerusalemme nella quale Dio ci farà vivere, ma perché queste riflessioni sulla Gerusalemme di lassù ci dicono qualcosa del nostro Dio. Egli non è il giu­dice tremendo degli ultimi tempi, con il quale si è cercato di spaventare i cristiani per secoli, per metterli in riga e farli camminare dritto.
Vorrei rilevare un tratto del testo che abbiamo letto: vi si dice che “Dio abiterà con gli uomini e asciugherà ogni lacrima dai loro occhi”; vi è qui un aspetto di Dio simile a ciò che dice Isaia quando lo paragona a una madre che non dimentica i propri figli. È un tratto di Dio che ritroviamo in Gesù quando giunge in vista di Gerusalemme.
Ogni ebreo prova un attaccamento viscerale per Gerusalemme, attaccamento inscrit­to sulla sua pelle, perché è la città scelta da Dio dove abita in mezzo al suo popolo. Questo attaccamento è talmente forte, che si va fino a venerare le pietre e la polvere di Gerusalem­me, lo dice il salmista: “I tuoi servi hanno care le sue pietre, per la sua polvere provano amore” (Sal 102,15). Questo non vale solo per l’ebreo praticante, vale anche per l’agno­stico; e vale pure per Gesù! 
 
Ora ecco: Gesù giunge a Gerusalemme – è la prima volta che ci arriva da adulto – ma non esulta come fanno i pellegrini che arrivano a Gerusalemme. No, piange sulla città dicendo:
Se avessi compreso, in questo giorno, ciò che porta alla pace! Ma ora è stato nascosto ai tuoi occhi. Per te verranno giorni in cui i tuoi nemici ti circonderanno di trincee, ti assedieranno e ti stringeranno da ogni parte; distruggeranno te e i tuoi figli dentro di te e non lasceranno in te pietra su pietra, perché non hai riconosciuto il tempo in cui sei stata visitata (Lc 19,42-44).
È un atteggiamento sconvolgente: Gesù non piange di gioia, le lacrime non gli vengo­no dall’emozione di vedere Gerusalemme. No, è un lamento, un canto funebre; è il pianto dello sposo tradito dalla moglie amata; è il lamento sull’incomprensione di Gerusalemme circa la via della pace, per cui il suo futuro non può essere che futuro di guerra, di assedio, di morte. In questa descrizione Luca si è ispirato alla conquista e alla distruzione di Geru­salemme da parte di Tito, nel 70 d.C. In questo pianto di Gesù sta la nostra speranza: è il segno dell’infinita compassione di Dio per noi, nonostante ciò che siamo e facciamo: come un madre, egli non si può dimenticare di noi, anche quando lo rinneghiamo.
La Gerusalemme di lassù non è altro che la parabola dell’amore sconfinato di Dio per noi … A Lui la gloria per tutti i secoli. Amen.
Daniel Attinger