lunedì 17 aprile 2017

Predicazione della domenica di Pasqua di Resurrezione (16 aprile 2017) su Matteo 28,1-10 a cura di Marco Gisola

Matteo 28,1-10
1 Dopo il sabato, verso l'alba del primo giorno della settimana, Maria Maddalena e l'altra Maria andarono a vedere il sepolcro. 2 Ed ecco si fece un gran terremoto; perché un angelo del Signore, sceso dal cielo, si accostò, rotolò la pietra e vi sedette sopra. 3 Il suo aspetto era come di folgore e la sua veste bianca come neve. 4 E, per lo spavento che ne ebbero, le guardie tremarono e rimasero come morte. 5 Ma l'angelo si rivolse alle donne e disse: «Voi, non temete; perché io so che cercate Gesù, che è stato crocifisso. 6 Egli non è qui, perché è risuscitato come aveva detto; venite a vedere il luogo dove giaceva. 7 E andate presto a dire ai suoi discepoli: "Egli è risuscitato dai morti, ed ecco, vi precede in Galilea; là lo vedrete". Ecco, ve l'ho detto».
8 E quelle se ne andarono in fretta dal sepolcro con spavento e grande gioia e corsero ad annunciarlo ai suoi discepoli.
9 Quand'ecco, Gesù si fece loro incontro, dicendo: «Vi saluto!» Ed esse, avvicinatesi, gli strinsero i piedi e l'adorarono. 10 Allora Gesù disse loro: «Non temete; andate ad annunciare ai miei fratelli che vadano in Galilea; là mi vedranno».


Secondo il Vangelo di Matteo, Maria Maddalena e l’altra Maria se ne stavano andando al luogo dove era sepolto Gesù “per vedere il sepolcro”. Non stavano andando a ungere il corpo di Gesù, come ci dicono invece i Vangeli di Marco e di Luca, perché, sempre secondo Matteo, il sepolcro di Gesù era sorvegliato da delle guardie.
Le guardie servivano a far sì che nessuno potesse andare a prelevare il corpo di Gesù e nasconderlo per poi poter dire che Gesù era risorto. Era quindi impensabile per Maria Maddalena e per l’altra Maria fare altro che non fosse mettersi lì davanti alla tomba e guardarla.
Accade a tutti, e sarà accaduto a tutti noi o quasi di andare al cimitero e mettersi a guardare una tomba di una persona cara e ripensare così a lei, ripensare al passato, alle cose fatte e vissute insieme. Forse lo stesso sentimento spingeva Maria Maddalena e Maria a recarsi alla tomba di Gesù.
Forse un po’ di malinconia, o tanta, le portava al sepolcro, con l’intenzione di mettersi lì davanti, ma non troppo vicino per non insospettire le guardie, e lasciare andare il ricordo indietro ai tempi in cui avevano camminato con Gesù, lo avevano ascoltato, avevano condiviso con lui il cibo, le discussioni e grandi speranze. Davanti a una tomba sembra proprio non esserci altro da fare che stare lì a guardarla, per guardare indietro.
Ma non solo davanti alle tombe; succede anche in molte altre situazioni di fermarsi e di stare lì a guardare con l’impressione di non poter fare nulla.
Erano andate a vedere una tomba Maria Maddalena e l'altra Maria. E hanno invece visto il risorto. Le donne vanno per vedere la tomba, ma poi – anche se qui non c’è il verbo vedere – vedono l’angelo; capiamo che lo vedono, perché il testo descrive il suo aspetto sfolgorante e la sua veste bianca.
Poi l’angelo le invita a vedere il luogo dove era sepolto Gesù, e infine vedono Gesù. E anche l’annuncio che le donne sono chiamate a portare ai discepoli contiene la promessa, che torna due volte, che i discepoli potranno vedere Gesù in Galilea.
In questo racconto il verbo “vedere” torna più volte e anche quando non c’è il verbo, Matteo ci fa capire che è molto importante dove si posa lo sguardo delle donne. Dalla tomba del loro amico e maestro, all’angelo, al luogo dove il corpo di Gesù giaceva, e poi ricevono la promessa che che potranno rivedere Gesù in Galilea e infine vedono, incontrano Gesù stesso.
Noi non abbiamo visto nulla di tutto ciò, né la tomba, né l’angelo, né il Risorto. Ma Maria Maddalena e l’altra Maria ci prestano i loro occhi, il loro sguardo diventa il nostro sguardo. Non lo sguardo degli occhi naturalmente, ma lo sguardo della fede.
A Pasqua risorge anche il nostro sguardo. Dal guardare una tomba, gesto carico di rassegnazione e di ricordi del passato, il nostro sguardo è portato a guardare il Risorto. Guardare una tomba è un’azione in cui si sta immobili, perché la tomba è per definizione il luogo dell’immobilità, dove la vita si è fermata. Guardare il Risorto invece mette in movimento.
Infatti dopo aver visto il Risorto, le due donne non stanno più lì a guardare – né la tomba, né altro – ma devono correre per annunciare quello che hanno visto. Così come i discepoli, che vedranno Gesù in Galilea, passeranno poi il resto del loro tempo a raccontare quello che hanno visto, ovvero che Gesù è risorto.
Ma non è tanto la visione del Risorto che mette in moto, bensì le parole del Risorto che mettono in moto. Poche persone hanno visto il Risorto (Paolo dirà più di 500, oltre i discepoli), moltissime, milioni e milioni hanno ascoltato le parole del Risorto, o meglio l’annuncio della Resurrezione.
La visione del risorto dura solo un tempo, mentre il messaggio che egli dà, la vocazione che egli rivolge, vale per tutti gli esseri umani e di tutti i tempi.
Il cuore del messaggio è ovviamente: “egli è risuscitato”. Questo annuncio fonda tutto il resto che viene detto, sia da Gesù, sia dall’angelo: le conseguenze pratiche del fatto che Gesù è risorto le troviamo nelle parole dell’angelo e di Gesù stesso.
L’annuncio, “egli è risuscitato”, è accompagnato da tre affermazioni, tre parole: l’incoraggiamento: “Non temete”. L’invio in missione, “andate a dire”, “andate ad annunziare”; e la promessa: “Gesù vi precede in Galilea”.
La prima parola, la prima conseguenza della resurrezione di Gesù è: “non temete”, è un invito a non avere paura, né della morte e nemmeno della vita, né degli altri e nemmeno di se stessi. Non avere paura significa non restare immobili, come le donne davanti alla tomba, ma fidare nell’intervento di Dio e credere che Dio stesso ci spinge ad agire per cambiare le cose.
E nel caso in cui – come capita a volte – una situazione è davvero immutabile, il “non temete” rimane un invito a non rassegnarsi comunque, perché il Signore continua a darci nuove mete, a chiamarci sempre su nuove strade dove troveremo sempre qualcosa da fare e qualcosa da cambiare.
La risurrezione di Cristo non è affatto un evento che riguarda solo la morte o solo l’aldilà, è un’azione di Dio che – come accade con le donne e poi con i discepoli – cambia la vita delle persone che ci credono, trasforma il loro sguardo, che non guarda più indietro, ma guarda avanti, senza paura.
La seconda parola e seconda conseguenza: “andate ad annunziare” è una vocazione. Chi crede e vive la risurrezione di Cristo è chiamato anche a dire, a comunicare la speranza che crede e che vive. Le donne corrono ad annunciarla, e il loro correre ci pone una domanda e ci chiede per cosa noi corriamo e cosa andiamo a dire al nostro prossimo.
Abbiamo una notizia straordinaria da dare: Gesù è risorto e con lui risorge la speranza, persino davanti alla morte. Se siamo credenti nella resurrezione di Cristo siamo portatori di buone notizie e di speranza, non di brutte notizie e di rassegnazione. Davanti alle brutte notizie, che non mancano mai, l’evangelo della resurrezione ci aiuta a non disperarci, ma a sperare e a lottare.
E ci invia a dire questa buona notizia a chi ne ha bisogno. La resurrezione di Cristo ci rende testimoni di speranza.
La terza parola, “Gesù vi precede in Galilea”, è la promessa. La Galilea è il luogo dove tutto è iniziato, dove Gesù ha chiamato i suoi discepoli, ha iniziato a predicare il regno di Dio e a fare i primi segni. Gesù riporta i suoi discepoli ai luoghi degli inizi.
Il messaggio della Pasqua è quindi che si può ricominciare, si può ricominciare in modo nuovo perché più nulla sarà come prima. Tutti noi abbiamo bisogno di questa possibilità di ricominciare, dopo i nostri fallimenti, dopo le rotture, dopo i conflitti, dopo le ferite che la vita a volte ci porta. Gesù Risorto ci dona questa possibilità.
Gesù dice anche a noi “non temete”, dice anche a noi “andate ad annunciare”, e precede anche noi verso nuove mete dove ci chiama a raggiungerlo, per ricominciare con lui.
Che il Signore mostri a ciascuno di noi, e alla nostra chiesa, dov’è che egli ci precede e dove ci prepara il nostro nuovo inizio, affinché anche noi non stiamo fermi a guardare noi stessi, ma andiamo dove lui ci chiama, senza paura, con speranza e fidando nella sua promessa di resurrezione.

sabato 15 aprile 2017

Predicazione del Venerdì Santo (14 aprile 2017) su Luca 23,33-43 a cura di Marco Gisola

Luca 23,33-43

33 Quando furono giunti al luogo detto «il Teschio», vi crocifissero lui e i malfattori, uno a destra e l'altro a sinistra.
34 Gesù diceva: «Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno». Poi divisero le sue vesti, tirandole a sorte.
35 Il popolo stava a guardare. E anche i magistrati si beffavano di lui, dicendo: «Ha salvato altri, salvi se stesso, se è il Cristo, l'Eletto di Dio!» 36 Pure i soldati lo schernivano, accostandosi, presentandogli dell'aceto e dicendo: 37 «Se tu sei il re dei Giudei, salva te stesso!»
38 Vi era anche questa iscrizione sopra il suo capo: QUESTO È IL RE DEI GIUDEI.
39 Uno dei malfattori appesi lo insultava, dicendo: «Non sei tu il Cristo? Salva te stesso e noi!» 40 Ma l'altro lo rimproverava, dicendo: «Non hai nemmeno timor di Dio, tu che ti trovi nel medesimo supplizio? 41 Per noi è giusto, perché riceviamo la pena che ci meritiamo per le nostre azioni; ma questi non ha fatto nulla di male». 42 E diceva: «Gesù, ricòrdati di me quando entrerai nel tuo regno!» 43 Ed egli gli disse: «Io ti dico in verità, oggi tu sarai con me in paradiso».


Con questo culto siamo al centro, al cuore dell’evangelo: Gesù muore per noi, muore lui, innocente, per noi colpevoli. Gesù, innocente, condivide la sorte dei colpevoli per salvare i colpevoli. Su questo brano vorrei condividere con voi tre pensieri:

1. Le parole di Gesù «Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno» ci vogliono subito dire quale è, in Luca, il significato principale della sua morte: il perdono. La morte di Gesù è l’evento attraverso cui Dio perdona i colpevoli, cioè è un vero perdono di chi veramente ha sbagliato, di chi veramente ha fatto del male. Qui Gesù non sta parlando in generale, sta parlando di chi e sta perdonando chi in quel momento lo sta uccidendo…!
Nel racconto della crocifissione dn Luca il tema del perdono è centrale. Gesù perdona fino alla fine; al contrario di quel che ci dicono Marco e Matteo, secondo Luca Gesù non prega con le famose parole del salmo 22 “Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato”, non sembra provare angoscia o rabbia o paura, Gesù è pienamente in sé e svolge il suo compito fino alla fine: anche morendo perdona.

2. Gesù resiste alla tentazione di scendere dalla croce. Questo racconto ha una analogia con quello delle tentazioni di Gesù su cui abbiamo riflettuto alcune settimane fa.
Chi sta crocifiggendo Gesù dice: «Ha salvato altri, salvi se stesso, se è il Cristo, l'Eletto di Dio!»; «Se tu sei il re dei Giudei, salva te stesso!». Proprio come nel racconto delle tentazioni c’è la parolina “se” che esprime la tentazione cui Gesù è sottoposto.
Se sei Dio, fai questo e quest'altro, cioè fai quello che voglio io. Se vuoi che creda in te, fai quello che voglio io. Le tentazioni del diavolo erano di altro genere, ma anche lì c’era questa specie di ricatto: se sei il figlio di Dio, fai questo, fai quell’altro. Se non lo fai, non sei il figlio di Dio.
Salva te stesso, gli dicono qui. Ma Gesù non è venuto per salvare se stesso, è venuto per salvare altri, per salvare noi. È venuto a fare il contrario di quello che gli esseri umani (e il diavolo nel racconto delle tentazioni) gli chiedono: è venuto non a salvare se stesso, ma a dare se stesso, la sua vita, per salvare altri, non a salvare se stesso a scapito di altri, come in genere fanno gli esseri umani.
Perché lo insultano in questo modo? Perché chi crocifigge Gesù è convinto che Gesù sia un finto messia, cioè sia un bugiardo quando dice di essere il figlio di Dio. Perché pensano sa un finto messia? Perché secondo gli ebrei che hanno respinto Gesù il messia doveva essere potente, doveva essere forte e hanno creduto questo ancora fino alla domenica delle Palme, quando lo hanno accolto trionfalmente.
E per i romani, che non credevano nel messia, vale però lo stesso discorso: un re doveva essere un re forte e potente, altrimenti non era un re, era un impostore.
Gesù non cede alla tentazione della forza, rimane debole fino alla fine, per questo è (umanamente) sconfitto, crocifisso, punito per questa sua pretesa bugiarda.
Che Gesù non dicesse bugie, che Gesù era veramente il messia, ce lo dice solo la sua resurrezione il mattino di Pasqua, che però di nuovo non è per nulla evidente, non è una manifestazione di forza evidente a tutti (infatti alcuni crederanno che il corpo sia stato rubato).
Che Gesù è il figlio di Dio ce lo dice, paradossalmente, la croce. Pasqua conferma la croce, a risuscitare sarà il crocifisso, non qualcun altro.
La regalità di Cristo ci viene rivelata solo nella croce e poi nella Pasqua. Sulla croce c’è l’iscrizione che hanno fatto scrivere i romani (Giovanni ci dice Pilato stesso): “Questo è il re dei Giudei”.
Questa scritta è allo stesso tempo ironica e profetica. Ironica, perché scrivere sopra la testa di un uomo che viene crocifisso che è re è una grossa umiliazione. Ma anche profetica, perché chi crede in lui sa che Gesù è veramente re, anche se il suo regno non è di questo mondo. Pilato è involontariamente profeta e dichiara a tutto il mondo che Gesù è re…!
Gesù non cede alla tentazione, che noi gli poniamo, di usare la forza per dimostrare la sua messianicità, ma sceglie la via della debolezza, che chiede la nostra fede. Sia la croce, sia la Pasqua chiedono la nostra fede, la nostra fiducia, perché non sono evidenti. Non è la forza dell’evidenza quella che usa Gesù, è un’altra forza, quella del dono e del perdono. Una forza che vede e crede solo chi lo incontra.

3. Tra i tanti che lo insultano, c’è anche uno dei due cosiddetti ladroni. Potrebbero essere degli zeloti, cioè dei rivoluzionari che volevano ribellarsi con la forza contro i romani, oppure potrebbero essere criminali comuni, dei comuni ladri.
Dei due uno lo prende in giro come molte altre persone, anche lui lo invita a salvare se stesso. l’altro invece non solo non insulta Gesù, ma gli fa una domanda inconsueta che sembra dirci che lui ha capito chi Gesù è veramente: gli chiede: «Gesù, ricòrdati di me quando entrerai nel tuo regno!».
Il malfattore “buono” non chiede che Gesù scenda dalla croce, ma chiede di partecipare al suo regno e sembra capire che il regno passa attraverso la croce. “Regno” è stata la parola centrale della predicazione di Gesù e il malfattore sembra riconoscere che Gesù è portatore di un Regno nuovo e diverso da tutti i regni.
A riconoscerlo come re mentre sta per morire è un povero criminale, condannato a morte anche lui nel medesimo modo, un crocifisso come lui, riconosce nel Gesù crocifisso il re, cioè il messia, e gli chiede di far parte del suo regno.
Questo uomo, crocifisso insieme a Gesù, è l’ultimo essere umano che gli rivolge la parola, l’ultimo con cui Gesù ha un dialogo; il racconto proseguirà raccontando la morte di Gesù. Gesù pronuncerà ancora una frase, ma sarà rivolta a Dio, a cui dirà una parola piena di fiducia: “Padre nelle tue mani rimetto il mio spirito”.


L’ultimo dialogo di Gesù con una persona contiene una implicita confessione di fede, perché se l’uomo chiede di poter entrare nel suo regno è perché ci crede, e allo stesso tempo una preghiera, a cui Gesù risponde con la promessa: «oggi tu sarai con me in paradiso».
Paradiso è un parola che nella Bibbia troviamo soltanto tre volte (2 Corinzi 12:4; Apoc, 2,7); viene dalla lingua persiana, e indica un giardino. Con questa parola greca, la traduzione greca dell’AT chiama il giardino di Eden di Genesi 2.
Così evidentemente si immaginavano l’aldilà gli ebrei che credevano alla resurrezione.
C’è quindi un annuncio del regno che Gesù fa un attimo prima di morire. E a chi la fa? Non a un discepolo, ma uno sconosciuto, un ladruncolo (o uno zelota, la sostanza non cambia) che glielo chiede in una specie di preghiera.
Il re del regno di Dio, il messia figlio di Dio, accoglie nel suo giardino, promette il suo regno a un malfattore, che glielo ha chiesto.

Questo ci dice che non è mai tropo tardi, per chiedere a Gesù il suo perdono. E nessun uomo, nemmeno il più colpevole, è escluso dalla possibilità di chiederglielo. Come ci dice Luca, nemmeno un delinquente crocifisso accanto a Gesù è escluso dal chiedergli grazia e dall’ottenere la grazia di Dio.
La parola di oggi ci dice che non è mai troppo tardi per chiedere il perdono di Dio e che non c’è nessuno che ne è escluso a priori: questo è l’evangelo della settimana santa e di Pasqua.
Che il Signore ci dia di cogliere tutti i giorni che “oggi” - come dice Gesù al malfattore - è il momento giusto per chiedere a Dio di accoglierci nel suo regno. La risposta sarà anche per noi: “oggi sarai con me in paradiso”.