venerdì 25 marzo 2016

Predicazione del Venerdì Santo, a cura di Marco Gisola

I racconti della Passione nei quattro Vangeli
Marco 14,32-46; Marco 15,33-37; Luca 23,33-43; Giovanni 19,26-30

Non tutti i Vangeli raccontano la passione di Gesù nello stesso modo. Quando pensiamo alla Passione di Gesù, abbiamo in mente alcuni episodi che conosciamo da sempre, ma forse non sempre sapremmo dire quale Vangelo racconta quel dato episodio.
Stasera vogliamo provare a vedere quali differenti accenti danno alla storia della Passione di Gesù i diversi Vangeli e che cosa queste differenze dicono alla nostra fede.

Marco e Matteo
I Vangeli di Marco e Matteo sono abbastanza simili tra loro nel racconto della passione e sono quelli che ci presentano un Gesù più angosciato davanti alla prospettiva della sofferenza e della morte. Il tema della solitudine di Gesù davanti alla sua morte è preminente nel Vangelo di Marco.

Marco 14,32-46
Poi giunsero in un podere detto Getsemani, ed egli disse ai suoi discepoli: «Sedete qui finché io abbia pregato». Gesù prese con sé Pietro, Giacomo, Giovanni e cominciò a essere spaventato e angosciato. E disse loro: «L'anima mia è oppressa da tristezza mortale; rimanete qui e vegliate». Andato un po' più avanti, si gettò a terra; e pregava che, se fosse possibile, quell'ora passasse oltre da lui. Diceva: «Abbà, Padre! Ogni cosa ti è possibile; allontana da me questo calice! Però, non quello che io voglio, ma quello che tu vuoi». Poi venne, li trovò che dormivano e disse a Pietro: «Simone! Dormi? Non sei stato capace di vegliare un'ora sola? Vegliate e pregate, per non cadere in tentazione; lo spirito è pronto, ma la carne è debole». Di nuovo andò e pregò, dicendo le medesime parole. E, tornato di nuovo, li trovò che dormivano perché gli occhi loro erano appesantiti; e non sapevano che rispondergli. Venne la terza volta e disse loro: «Dormite pure, ormai, e riposatevi! Basta! L'ora è venuta: ecco, il Figlio dell'uomo è consegnato nelle mani dei peccatori. Alzatevi, andiamo; ecco, colui che mi tradisce è vicino».
In quell'istante, mentre Gesù parlava ancora, arrivò Giuda, uno dei dodici, e insieme a lui una folla con spade e bastoni, inviata da parte dei capi dei sacerdoti, degli scribi e degli anziani. Colui che lo tradiva aveva dato loro un segnale, dicendo: «Quello che bacerò, è lui; pigliatelo e portatelo via sicuramente». Appena giunse, subito si accostò a lui e disse: «Rabbì!» e lo baciò. Allora quelli gli misero le mani addosso e lo arrestarono.

Marco è quello degli evangelisti – insieme a Matteo – che ci trasmette la versione più drammatica della passione di Gesù. In Marco Gesù ha paura di morire, non vuole. È in questo senso un Gesù molto umano, a noi molto vicino.
Marco ci fa percepire l’assurdità di questa morte. Nel Getsemani Gesù prende con sé Pietro, Giacomo e Giovanni e confida loro: “l’anima mia è oppressa da tristezza mortale” (14,34); parole cariche di angoscia che solo Marco e Matteo ci riportano.
La sua preghiera nel Getsemani dice: “Abbà, Padre, ogni cosa ti è possibile! Allontana da me questo calice” (14,36). Gesù in Matteo dice “se possibile” e in Luca “se vuoi”. In Marco, invece, non ci sono dei se: Gesù sa che Dio può evitargli la sofferenza e la morte e glielo chiede in modo diretto.
Quando poi arriva Giuda, Gesù si lascia baciare e Gesù viene arrestato mentre tutti i discepoli fuggono.
Anche il silenzio che Gesù oppone spesso alle domande durante gli interrogatori, lo scherno, prima nel pretorio romano da parte dei soldati romani, e poi quando già Gesù è appeso alla croce, con gli inviti a scendere dalla croce e a salvare se stesso sembrano evidenziare, oltre alla crudeltà della scena, l’impotenza di Gesù.
Infine anche le ultime parole che Gesù pronuncia prima di morire ci mostrano i diversi punti di vista dei Vangeli: Marco e Matteo riportano le famose parole del Salmo 22,1:

Marco 15,33-37
Venuta l'ora sesta, si fecero tenebre su tutto il paese, fino all'ora nona. All'ora nona, Gesù gridò a gran voce: «Eloì, Eloì lamà sabactàni?» che, tradotto, vuol dire: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» Alcuni dei presenti, udito ciò, dicevano: «Chiama Elia!» Uno di loro corse e, dopo aver inzuppato d'aceto una spugna, la pose in cima a una canna e gli diede da bere, dicendo: «Aspettate, vediamo se Elia viene a farlo scendere».Gesù, emesso un gran grido, rese lo spirito

Luca
Il Vangelo di Luca ci trasmette un racconto della passione di Gesù un po’ meno drammatico del Vangelo di Marco. Nel Getsemani, per esempio, i discepoli si addormentano sì, ma una volta sola e non tre, e la causa del loro sonno è la loro “tristezza”. Quando poi arriva Giuda, che lo vuole baciare, Gesù si oppone (22,47-48) evitando questa umiliazione.
E Luca non menziona nessuna fuga dei discepoli mentre Gesù viene arrestato. Mentre in Marco i discepoli sono più “traditori”, in Luca sono più fragili e deboli, e quindi bisognosi di incoraggiamento più che di critica: “voi siete quelli che avete perseverato con me nelle mie prove” (22,28s.) dice Gesù ai discepoli dopo l’ultima Cena.
Durante la scena dell’arresto, qualcuno estrae la spada e ferisce un servo del sommo sacerdote all’orecchio, e Gesù, nonostante la sua situazione di pericolo, lo guarisce. Così Luca racconta la crocifissione:

Luca 23,33-46
Quando furono giunti al luogo detto «il Teschio», vi crocifissero lui e i malfattori, uno a destra e l'altro a sinistra. Gesù diceva: «Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno». Poi divisero le sue vesti, tirandole a sorte. Il popolo stava a guardare. E anche i magistrati si beffavano di lui, dicendo: «Ha salvato altri, salvi se stesso, se è il Cristo, l'Eletto di Dio!» Pure i soldati lo schernivano, accostandosi, presentandogli dell'aceto e dicendo: «Se tu sei il re dei Giudei, salva te stesso!» Vi era anche questa iscrizione sopra il suo capo: QUESTO È IL RE DEI GIUDEI. Uno dei malfattori appesi lo insultava, dicendo: «Non sei tu il Cristo? Salva te stesso e noi!» Ma l'altro lo rimproverava, dicendo: «Non hai nemmeno timor di Dio, tu che ti trovi nel medesimo supplizio? Per noi è giusto, perché riceviamo la pena che ci meritiamo per le nostre azioni; ma questi non ha fatto nulla di male». E diceva: «Gesù, ricòrdati di me quando entrerai nel tuo regno!» Ed egli gli disse: «Io ti dico in verità, oggi tu sarai con me in paradiso». Era circa l'ora sesta, e si fecero tenebre su tutto il paese fino all'ora nona; il sole si oscurò. La cortina del tempio si squarciò nel mezzo.
Gesù, gridando a gran voce, disse: «Padre, nelle tue mani rimetto lo spirito mio». Detto questo, spirò.

Ci sono qui due scene famose che rendono Luca un po’ diverso dagli altri: la prima è la nota frase “Padre perdona loro perché non sanno quello che fanno” (23,34), una parola di perdono per coloro che lo hanno condannato a morte: persino dalla croce Gesù riesce a pronunciare una parola di perdono.
E poi l’annuncio che fa a uno dei due che vengono crocifissi con lui: «Io ti dico in verità, oggi tu sarai con me in paradiso» (23,43). Anche qui una parola di misericordia per il suo compagno di sventura; Gesù mentre sta per morire pensa ancora a questo singolo essere umano, condannato come lui alla terribile morte della croce.
Anche le ultime parole di Gesù sono diverse da quelle che troviamo in Marco e Matteo, ma su questo ritorniamo dopo.

Giovanni
All’estremo opposto c’è Giovanni, che ci racconta invece di un Gesù decisamente consapevole che la sua missione deve culminare con la sua morte e la accetta fino in fondo.
In Giovanni Gesù non si getta a terra a pregare il Padre per chiedergli “allontana da me questo calice!” (Marco 14,36) cioè che la sofferenza gli sia evitata, ma anzi sa che deve bere il calice: «non berrò forse il calice che il Padre mi ha dato?» dice Gesù a Pietro che tira fuori la spada per difenderlo durante l’arresto (18,11).
Gesù sa, questa è la sua caratteristica costante nel Vangelo di Giovanni: Gesù sa e accetta ciò che lo attende. Davanti a Pilato non sta in silenzio, come nel Vangelo di Marco, ma si comporta da buon oratore e risponde a tono. Gesù sa anche che se Pilato può trattarlo così è perché la sua autorità gli deriva dall’alto (19,11), cioè da Dio e non perché sia potente lui in sé.
Quando poi è il momento di andare verso il luogo della crocifissione, non c’è Simone di Cirene a portare la croce di Gesù, ma Gesù se la porta da solo: è lui a offrire la sua propria vita.
E anche le ultime parole di Gesù sono emblematiche del suo modo di affrontare la morte:

Giovanni 19,26-30
Gesù dunque, vedendo sua madre e presso di lei il discepolo che egli amava, disse a sua madre: «Donna, ecco tuo figlio!» Poi disse al discepolo: «Ecco tua madre!» E da quel momento, il discepolo la prese in casa sua.
Dopo questo, Gesù, sapendo che ogni cosa era già compiuta, affinché si adempisse la Scrittura, disse: «Ho sete». C'era lì un vaso pieno d'aceto; posta dunque una spugna, imbevuta d'aceto, in cima a un ramo d'issopo, l'accostarono alla sua bocca. Quando Gesù ebbe preso l'aceto, disse: «È compiuto!» E, chinato il capo, rese lo spirito.


Le ultime parole di Gesù
Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato?” (Matteo e Marco)
Padre, nelle tue mani rimetto lo Spirito mio” (Luca)
È compiuto” (Giovanni)


Quali sono le parole che Gesù ha pronunciate prima di morire? Quattro Vangeli ce ne danno tre versioni diverse. Sembrano quasi persone diverse a soffrire e a morire in modi così diversi, pronunciando frasi così diverse. Eppure è lo stesso ed unico Gesù, visto da tre angolature diverse. Un Gesù debole e angosciato quello di Marco e Matteo, un Gesù afflitto ma in cui prevale la bontà e la fiducia quello di Luca, un Gesù consapevole e convinto quello di Giovanni.
I quattro Vangeli ci presentano Gesù non come un monolite, ma ci offrono diversi punti di vista sulle sue reazioni e sul suo modo di affrontare la passione, potremmo dire diversi punti di vista da cui vedere la sua umanità. Ogni autore dei Vangeli ha voluto offrirci una sua visione di questi eventi e dunque di Gesù stesso, della sua persona.
Il Gesù di Marco (e Matteo) ci ricorda tutta la nostra debolezza e il dramma della sofferenza umana, che Gesù ha pienamente condivisa. Ci ricorda che la passione di Gesù non è stata una avventura di un eroe, ma un’angoscia di un uomo, sebbene quell’uomo, vero uomo, fosse il figlio di Dio, vero Dio. Che ha avuto come noi paura di soffrire e di morire e che avrebbe voluto farne a meno.
È un Gesù che ci aiuta quando soccombiamo anche noi sotto i colpi della vita: Gesù subisce come spesso tocca a noi subire nel corpo e nel morale. Gesù è come noi ed è con noi. La sua preghiera è la nostra preghiera: allontana da me questo calice … risparmiami questa o quell’altra cosa; e le sue domande sono le nostre domande: perché mi abbandoni?…, dove sei …?
Il Gesù di Luca ci ricorda che, così come l’angoscia di Gesù è simile a volte alla nostra angoscia, tuttavia la sua fiducia può essere anche la nostra fiducia. Nel tormento e nella sofferenza, si può essere fiduciosi come lo è stato Gesù. Addirittura nella morte si può essere fiduciosi in ciò che ci attende e dire con Gesù: “Padre, nelle tue mani rimetto lo spirito mio”.
Come mi sono affidato a te nella vita, mi affido a te nella morte. La mia vita e la mia morte sono nelle tue mani.
Il Gesù di Giovanni ci sembra forse più lontano, troppo divino, eppure proprio questa è la sfida della fede: sapere che non possiamo essere così certi e così consapevoli, come lo è il Gesù di Giovanni, ma sapere anche che Gesù non è certo e sicuro di se stesso, ma certo e sicuro del Padre, di Dio. La consapevolezza del Gesù di Giovanni si fonda in Dio Padre e nel suo amore.
E questo è un invito, anzi un appello che questo vangelo di rivolge a guardare oltre noi stessi, nel bene e nel male. Nel bene per non inorgoglirci e nel male per mantenere la fiducia che oltre il male che a volte ci tocca, c’è il bene che Dio vuole per noi; che oltre le nostre lacrime, c’è Dio che le asciuga; che oltre le nostre debolezze, c’è la forza della grazia di Dio. Di questo è sicuro il Gesù che ci presenta il vangelo di Giovanni.
Ovviamente, va ribadito, Gesù è uno solo la sua passione una sola, solo che i quattro vangeli ce la raccontano con accentuazioni diverse, mettendo in risalto aspetti diversi dello stesso Gesù che affronta la sua passione.
Angoscia, fiducia e certezza si mescolano nella nostra vita ogni giorno, in ogni stagione della nostra esistenza. È stato così anche nella vita di Gesù. E, senza dimenticare che la sua passione è stata solo sua, egli ha sofferto ed è morto per noi e non viceversa, in questa pluralità di esperienze e di emozioni Gesù è uomo come noi.
Noi siamo a volte colpiti e angosciati come il Gesù di Marco e Matteo. A volte però riusciamo a vivere le fatiche e le difficoltà con la fiducia con cui vive la sua passione il Gesù di Luca. E siamo invitati e chiamati a fondare questa fiducia sulla certezza - tipica del Gesù di Giovanni – che Dio non ci abbandona e anzi ci accompagna nelle difficoltà e nel dolore, che possiamo così affrontare con speranza.

Dio è più grande della nostra piccola umanità, è più forte della colpa ed è più forte delle nostre sofferenze, come la resurrezione sarà più grande e più forte della morte: ecco la certezza di Gesù, che splenderà la mattina di Pasqua.
Possa questa essere anche la nostra certezza e voglia il Signore che la sua risurrezione diventi la nostra risurrezione a vita nuova, nella fede, già qui ed ora.

domenica 20 marzo 2016

Predicazione di domenica 20 marzo 2016 a cura di Marco Gisola (Culto con scuola domenicale)

In buone mani

Nel culto del mese scorso vi avevamo presentato il percorso che avevamo iniziato verso la Pasqua, percorso in cui abbiamo letto alcuni testi biblici attraverso un simbolo, il simbolo delle mani.
Nei primi testi che avevamo letto avevamo incontrato le mani di Gesù in due gesti molto importanti: nella ultima cena con i suoi discepoli, le mani di Gesù condividono il pane e il vino; così avevamo riassunto tutte le azioni che le mani di Gesù compiono in quell’occasione: prendere il pane, spezzarlo, darlo ai suoi discepoli e poi anche prendere il calice, offrirlo… il tutto accompagnato dalle sue parole che spiegavano quei gesti: «Questo è il mio corpo che è dato per voi; fate questo in memoria di me»… «Questo calice è il nuovo patto nel mio sangue, che è versato per voi».
L’altro gesto delle mani di Gesù era quello di lavare i piedi ai suoi discepoli, ma anziché scrivere “mani che lavano” abbiamo scritto il significato che Gesù stesso ha dato a questo gesto e allora abbiamo scritto “mani che servono”, mani usate per servire, perché Gesù chiede ai suoi discepoli di servire gli uni gli altri.
Due gesti belli, positivi, carichi di significato. Ma che cosa succede poi alle mani di Gesù? Proprio poco dopo l'ultima cena in cui condivide pane e vino con i discepoli e in cui, secondo Giovanni, lava i piedi ai discepoli e insegna loro a essere servi, accade che Gesù viene arrestato e poi viene processato e condannato alla crocifissione:


Lettura: Marco 14,43-46
43 In quell'istante, mentre Gesù parlava ancora, arrivò Giuda, uno dei dodici, e insieme a lui una folla con spade e bastoni, inviata da parte dei capi dei sacerdoti, degli scribi e degli anziani. 44 Colui che lo tradiva aveva dato loro un segnale, dicendo: «Quello che bacerò, è lui; pigliatelo e portatelo via sicuramente». 45 Appena giunse, subito si accostò a lui e disse: «Rabbì!» e lo baciò. 46 Allora quelli gli misero le mani addosso e lo arrestarono.


Lettura: Marco 15,21-39
Costrinsero a portare la croce di lui un certo Simone di Cirene, padre di Alessandro e di Rufo, che passava di là, tornando dai campi. E condussero Gesù al luogo detto Golgota che, tradotto, vuol dire «luogo del teschio».  Gli diedero da bere del vino mescolato con mirra; ma non ne prese.Poi lo crocifissero e si divisero le sue vesti, tirandole a sorte per sapere quello che ciascuno dovesse prendere. Era l'ora terza quando lo crocifissero.L'iscrizione indicante il motivo della condanna diceva: Il re dei Giudei. Con lui crocifissero due ladroni, uno alla sua destra e l'altro alla sua sinistra. [E si adempì la Scrittura che dice: «Egli è stato contato fra i malfattori».]
Quelli che passavano lì vicino lo insultavano, scotendo il capo e dicendo: «Eh, tu che distruggi il tempio e lo ricostruisci in tre giorni, salva te stesso e scendi giù dalla croce!» Allo stesso modo anche i capi dei sacerdoti con gli scribi, beffandosi, dicevano l'uno all'altro: «Ha salvato altri e non può salvare se stesso. Il Cristo, il re d'Israele, scenda ora dalla croce, affinché vediamo e crediamo!» Anche quelli che erano stati crocifissi con lui lo insultavano.
Venuta l'ora sesta, si fecero tenebre su tutto il paese, fino all'ora nona. All'ora nona, Gesù gridò a gran voce: «Eloì, Eloì lamà sabactàni?» che, tradotto, vuol dire: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» Alcuni dei presenti, udito ciò, dicevano: «Chiama Elia!» Uno di loro corse e, dopo aver inzuppato d'aceto una spugna, la pose in cima a una canna e gli diede da bere, dicendo: «Aspettate, vediamo se Elia viene a farlo scendere».
Gesù, emesso un gran grido, rese lo spirito. E la cortina del tempio si squarciò in due, da cima a fondo. E il centurione che era lì presente di fronte a Gesù, avendolo visto spirare in quel modo, disse: «Veramente, quest'uomo era Figlio di Dio!»


il primo brano che abbiamo letto è un pezzettino della scena dell'arresto di Gesù. Il testo dice che “gli misero le mani addosso e lo arrestarono”. Le mani degli altri sono su Gesù e non per dare una carezza, ma per prenderlo, per arrestarlo. Potremmo dire che Gesù è nelle mani degli altri, nelle mani di chi gli vuole fare del male. Non sono più le sue mani che agiscono, ma le mani degli altri, che lo arrestano, che lo fermano, che lo portano via. Questo testo non dice nulla sulle mani di Gesù, e allora abbiamo provato a immaginarcelo noi: come potevano essere le mani di un uomo arrestato e malmenato? Abbiamo pensato che le mani di Gesù erano legate.
Quelle mani che avevano condiviso il pane e il vino, che avevano lavato i piedi ai suoi discepoli per insegnare loro a essere servi, ora vengono legate. Non possono più condividere, non possono più lavare i piedi, non possono più fare nulla. A chi, di solito, si legano le mani? chi è che viene arrestato? I criminali, quelli che fanno del male agli altri e bisogna quindi fermare. E invece viene fermato Gesù, che usava le sue mani per condividere e per lavare i piedi, cioè per servire. Viene arrestato un innocente, viene legato uno che non fa del male agli altri, ma anzi fa del bene e insegna a fare il bene.
Gesù viene poi crocifisso, abbiamo letto il racconto molto triste della sua crocifissione. Gesù viene picchiato, deriso, cioè preso in giro, anche quando è già in croce, e infine muore. Gli dicono di scendere dalla croce, se è davvero il Cristo, il re di Israele. Chi lo prende in giro pensa che Gesù non possa scendere dalla croce, ma la realtà è che Gesù non vuole scendere dalla croce, perché il suo essere re non sta nella forza, ma nell’amore, non nel potere ma nel servizio.
Quando Gesù muore, il centurione che era lì di guardia dice una cosa molto interessante: «Veramente, quest'uomo era Figlio di Dio!» Il centurione, che era romano e quindi pagano e non ebreo, e non credeva in Dio, riconosce in Gesù il figlio di Dio mentre Gesù muore. Il vangelo di Marco vuole dirci che il figlio di Dio lo si riconosce nella croce, non nei troni dei re, non nel potere che si esercita, ma nell’amore che si dona.
È successo a tante persone di essere fermate, di essere legate, di essere anche uccise perché facevano del bene. Una di queste persone che è morta poco più di due anni fa è Nelson Mandela. Mandela era del Sudafrica ed era un cristiano che apparteneva alla chiesa metodista; ed era un nero che ha lottato per la fine dell’apartheid, cioè della discriminazione dei neri da parte dei bianchi in Sudafrica. Anche a lui hanno legato le mani: Mandela è stato 26 anni in prigione, è stato arrestato anche lui perché chiedeva giustizia, chiedeva diritti per i neri come lui. Grazie a Dio Mandela è poi stato liberato e, quando è finito finalmente l’apartheid, è addirittura diventato presidente del Sudafrica; è morto nel 2013 a 95 anni.
La storia di Mandela è una testimonianza del fatto che se è vero che a volte chi cerca la giustizia viene fermato e si trova con le mani legate, Dio dà la forza di non arrendersi e di andare avanti, di non perdere la speranza, perché le cose possono cambiare.
E c’è una storia nella Bibbia che più di tutte parla di cambiamento: è la resurrezione di Gesù, che noi celebreremo a Pasqua. Ma nel nostro percorso siamo già arrivati a Pasqua e oltre. I Vangeli non ci raccontano la resurrezione di Gesù, non ci è detto come Gesù è uscito dalla tomba, perché non è importante come Gesù è risorto, è importante che Gesù è risorto. I vangeli ci raccontano che la mattina di Pasqua la tomba di Gesù è stata trovata vuota e poi ci raccontano gli incontri di Gesù risorto con i suoi discepoli e le sue discepole. Nel vangelo di Giovanni Gesù si fa vedere prima da Maria Maddalena, che era andata al sepolcro e l’aveva trovato aperto e vuoto. Poi si fa vedere anche dai suoi discepoli:


Giovanni 20,19-29
La sera di quello stesso giorno, che era il primo della settimana, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, Gesù venne e si presentò in mezzo a loro, e disse: «Pace a voi!» E, detto questo, mostrò loro le mani e il costato. I discepoli dunque, veduto il Signore, si rallegrarono. Allora Gesù disse loro di nuovo: «Pace a voi! Come il Padre mi ha mandato, anch'io mando voi». Detto questo, soffiò su di loro e disse: «Ricevete lo Spirito Santo. A chi perdonerete i peccati, saranno perdonati; a chi li riterrete, saranno ritenuti». Or Tommaso, detto Didimo, uno dei dodici, non era con loro quando venne Gesù. Gli altri discepoli dunque gli dissero: «Abbiamo visto il Signore!» Ma egli disse loro: «Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi, e se non metto il mio dito nel segno dei chiodi, e se non metto la mia mano nel suo costato, io non crederò».Otto giorni dopo, i suoi discepoli erano di nuovo in casa, e Tommaso era con loro. Gesù venne a porte chiuse, e si presentò in mezzo a loro, e disse: «Pace a voi!» Poi disse a Tommaso: «Porgi qua il dito e guarda le mie mani; porgi la mano e mettila nel mio costato; e non essere incredulo, ma credente». Tommaso gli rispose: «Signor mio e Dio mio!» Gesù gli disse: «Perché mi hai visto, tu hai creduto; beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!»

Non dobbiamo giudicare troppo in fretta Tommaso: probabilmente avremmo fatto anche noi la stessa cosa. La resurrezione di Gesù era una cosa troppo grande e troppo bella e anche molto difficile da credere. Era più facile credere che il corpo di Gesù fosse stato rubato, come dicevano alcuni.
Tommaso vuole vedere e vuole toccare – per questo abbiamo scritto “mani che vogliono toccare” - non si fida nemmeno soltanto della vista ma vuole proprio metterci le sue mani nelle ferite di Gesù.
Tommaso, ci siamo detti, siamo tutti noi, ci rappresenta, con tutti i nostri dubbi e la nostra difficoltà a credere, a fidarci. Dopo i discepoli, che hanno visto Gesù risorto, tutti quelli che sono venuti dopo hanno creduto senza vedere, fino a noi. Gesù dice a Tommaso: «Perché mi hai visto, tu hai creduto; beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!».
Siamo beati se riusciamo a fidarci, siamo beati perché è un dono di Dio che ci aiuta a credere, perché noi tendiamo a non credere, a essere diffidenti. Gesù non rimprovera Tommaso, è disposto persino a farsi toccare come Tommaso voleva. Non lo sgrida, ma lo invita a credere: «non essere incredulo, ma credente».
Invita anche noi a credere, a fidarci e ad affidarci a lui. Non ci chiede di non avere dubbi, ma vuole che i nostri dubbi non siano più grandi della nostra fiducia in lui. Come a Pasqua la vita è stata più forte della morte, la fiducia è più forte dei dubbi e della rassegnazione.


Luca 24
50 Poi li condusse fuori fin presso Betania; e, alzate in alto le mani, li benedisse. 51 Mentre li benediceva, si staccò da loro e fu portato su nel cielo. 52 Ed essi, adoratolo, tornarono a Gerusalemme con grande gioia; 53 e stavano sempre nel tempio, benedicendo Dio


Torniamo alle mani di Gesù, che ora sono di nuovo libere perché Gesù è risorto. Queste sono le ultime parole del Vangelo di Luca. Luca ha scritto anche gli Atti e negli Atti ha raccontato l’ascensione di Gesù a Dio, il suo ritorno al Padre. La racconta anche nel vangelo, ma molto più brevemente.
Prima di salire a Dio Gesù fa una cosa molto importante: benedice i suoi discepoli e nel farlo alza le mani. Ci siamo chiesti come avrà alzato le mani Gesù… Il racconto non ce lo dice. Avrà fatto così (mani aperte verso l’alto) o così (mani aperte verso il basso)?
Nel primo modo il gesto delle mani sembra che voglia dare qualcosa a chi sta sotto le mani. nell'altro modo le mani sembrano voler ricevere qualcosa. Noi usiamo questo secondo gesto quando alla fine del culto invochiamo la benedizione del Signore, perché non diamo la benedizione, ma chiediamo la benedizione di Dio, abbiamo bisogno di ricevere la sua benedizione.
E che cosa vuol dire benedire? La benedizione di Dio nella Bibbia è, potremmo dire, la presenza di Dio nella vita quotidiana. Qualcuno ha detto che quando Dio agisce con grandi azioni (come l’Esodo del popolo di Israele nell’AT o la resurrezione di Gesù) questa è la salvezza, mentre quando Dio agisce senza che ce ne accorgiamo, nelle piccole cose della vita di ogni giorno, questa è la benedizione. Gesù, benedicendo i suoi discepoli, promette la sua presenza accanto a loro nella loro vita e anche nel compito che avranno di far conoscere il suo amore a tutti.
Ma poi il testo ci dice che anche i discepoli benedicono Dio. Qui questa parola ha un altro significato: i discepoli benedicono Dio, nel senso che dicono bene di lui, che lo lodano, che lo ringraziano. E infatti il racconto ci dice che i discepoli tornano a Gerusalemme “con grande gioia”. Grande gioia, perché Gesù è risorto ed è con loro e anche se sale in cielo e torna a Dio, sarà con loro nel suo Spirito. Proprio con questa grande gioia vogliamo concludere la nostra riflessione: grande gioia perché non siamo soli, perché Dio ci accompagna con la sua benedizione e siamo in buone mani…
Questa è la nostra grande gioia e la nostra grande speranza.
Riassumiamo infine quello che abbiamo capito in questo percorso attraverso le mani…  

(frasi dei bambini/ragazze)

Mani che condividono
Sono le mani di Gesù che condividono il pane e il vino con i suoi discepoli. Condividendo il pane e il vino, noi ricordiamo che Gesù ha dato la sua vita per noi e impariamo anche noi a condividere con gli altri.


Mani che servono
Sono le mani di Gesù che servono, che lavano i piedi ai suoi discepoli per dare un esempio a tutti noi e insegnarci che nessuno è superiore agli altri.


Mani legate
Sono le mani di Gesù che che vengono legate per impedirgli di condividere e di servire. Ma il nodo che lega le mani di Gesù si scioglie a Pasqua. Anche oggi a molte persone che fanno il bene e cercano la giustizia vengono legate le mani e a tutti loro Gesù risorto dona speranza.


Mani che vogliono toccare
Le mani che vogliono toccare sono quelle di Tommaso, che non crede se non vede e non tocca le ferite di Gesù, ma anche le mani di tutti noi che spesso dubitiamo e non crediamo alla Parola di chi ci racconta di Gesù.


Mani che benedicono
Le mani che benedicono sono quelle di Gesù, che ci promette la presenza di Dio accanto a noi tutti i giorni della nostra vita. Per questo anche i discepoli benedicono Dio, ovvero lo ringraziano e sono pieni di gioia perché Gesù è risorto.
Gesù benedice anche noi e anche noi lo vogliamo benedire e ringraziare per ciò che ha fatto per noi.

lunedì 7 marzo 2016

Predicazione di domenica 6 marzo 2016 su 2 Corinzi 1,3-7 a cura di Marco Gisola

Benedetto sia il Dio e Padre del nostro Signore Gesù Cristo, il Padre misericordioso e Dio di ogni consolazione, il quale ci consola in ogni nostra afflizione, affinché, mediante la consolazione con la quale siamo noi stessi da Dio consolati, possiamo consolare quelli che si trovano in qualunque afflizione; perché, come abbondano in noi le sofferenze di Cristo, così, per mezzo di Cristo, abbonda anche la nostra consolazione. Perciò se siamo afflitti, è per la vostra consolazione e salvezza; se siamo consolati, è per la vostra consolazione, la quale opera efficacemente nel farvi capaci di sopportare le stesse sofferenze che anche noi sopportiamo. La nostra speranza nei vostri riguardi è salda, sapendo che, come siete partecipi delle sofferenze, siete anche partecipi della consolazione.


Il brano di Paolo di oggi è l’inizio della sua seconda lettera ai Corinzi. E come inizia Paolo la sua lettera? Ringraziando Dio perché ci consola in ogni afflizione. Dio è chiamato Padre misericordioso e Dio di ogni consolazione. Misericordia e consolazione vanno insieme.
Paolo inizia così la sua lettera, anche perché lui stesso si trova nella sofferenza. Nei versetti successivi scrive: Fratelli, non vogliamo che ignoriate, riguardo all'afflizione che ci colse in Asia, che siamo stati molto provati, oltre le nostre forze, tanto da farci disperare perfino della vita.  Anzi, avevamo già noi stessi pronunciato la nostra sentenza di morte, affinché non mettessimo la nostra fiducia in noi stessi, ma in Dio che risuscita i morti.
Paolo ha avuto paura di essere molto vicino alla morte e ha sperimentato lui stesso sulla sua pelle la consolazione di Dio. Le difficoltà di Paolo sono difficoltà legate al suo ministero, all’ostilità e alle persecuzioni che ha incontrato nella sua predicazione.
Noi, che non siamo perseguitati e che non soffriamo per il fatto di essere cristiani, forse pensiamo piuttosto alla consolazione di cui abbiamo bisogno nelle fatiche e nelle sofferenze che incontriamo, nella malattia, nel lutto, nelle difficoltà personali.
Che cos’è la consolazione che Dio ci offre? Un aspetto della consolazione è quello che menziona qui Paolo: Paolo dice che la consolazione opera efficacemente nel farvi capaci di sopportare le stesse sofferenze che anche noi sopportiamo. La forza di sopportare è un primo aspetto della consolazione.
Sopportare non è una parola tanto positiva, ci piacerebbe di più che Dio ci promettesse di modificare le situazioni, di cambiare le cose che non vanno, di trasformare le realtà negative in realtà positive. A volte Dio fa anche questo, ma spesso abbiamo davvero bisogno di ricevere da lui la forza di sopportare ciò che non è modificabile.
Sopportare ha anche un significato positivo: vuol dire non piegarsi, non cedere, non arrendersi. Sopportare vuol dire mantenere la speranza e continuare a vivere e a lottare nonostante le difficoltà e le sofferenze. Sopportare vuol dire non darla vinta al male e ai malvagi, e andare avanti.
La consolazione a volte è invece l’equivalente di salvezza, come è accaduto a Paolo: temeva di morire, ma Dio lo ha salvato dalla morte. Perché, grazie a Dio, a volte le cose cambiano.
Dio consola, per questo va ringraziato e benedetto, perché è accanto a noi nelle nostre difficoltà e nei nostri dolori. Dio non è solo il Dio che salva attraverso le sue grandi azioni - a partire dall’esodo fino alla venuta di Gesù, alla sua morte e resurrezione - ma è il Dio che consola, che sta accanto a noi nella quotidianità, specialmente quando la quotidianità è più faticosa.
Ma c’è un secondo aspetto che Paolo sottolinea riguardo alla consolazione. La consolazione non rimane un’azione di Dio nei miei confronti e basta; la consolazione ricevuta diventa consolazione offerta: Dio – dice Paolo – ci consola in ogni nostra afflizione, affinché, mediante la consolazione con la quale siamo noi stessi da Dio consolati, possiamo consolare quelli che si trovano in qualunque afflizione.
Hai ricevuto la consolazione? Ora puoi offrirla agli altri! Sei stato consolato? Ora puoi consolare! È come se la consolazione ricevuta non si fermasse a chi è stato consolato, ma diventasse “contagiosa”.


In questo caso Paolo parla della consolazione, ma lo stesso discorso vale per tutti i doni di Dio.
Ciò che noi riceviamo da Dio non è per noi, ma ci è dato affinché noi lo diamo a nostra volta agli altri. In questa affermazione di Paolo c’è un principio tanto semplice quanto fondamentale per la vita dei credenti e della chiesa: ciò che riceviamo da Dio, siamo chiamati a darlo a nostra volta agli altri.
La vita cristiana, e quindi anche la vita di una chiesa, è tutta fatta di ricevere e di dare, è un circolo virtuoso, una circolazione continua dei doni che Dio ci ha fatto e che siamo chiamati a ritrasmettere ad altri, a condividere con altri. Può sembrare un’affermazione banale, quasi scontata, ma non lo è.
Perché nella realtà non è affatto scontato essere capaci di ricevere e non affatto scontato essere capaci di dare.
Sul fatto che Dio è colui che dona, su questo siamo tutti d’accordo. Ma non è ovvio che tutti noi siamo disposti a ricevere dalle sorelle e dai fratelli.
Tutti siamo ben disposti a riconoscere di aver soltanto da ricevere da Dio. Ma siamo tutti consapevoli di aver molto da ricevere anche dalle sorelle e dai fratelli? E siamo tutti consapevoli di aver qualcosa da dare alle sorelle e ai fratelli?
Perché questa circolarità e questa reciprocità è essenziale alla vita della chiesa. Nessuno può pretendere di non aver bisogno di ricevere nulla e nessuno può pretendere di non aver nulla da dare. Una vita comunitaria sana è quella in cui tutti/e sanno di aver bisogno di ricevere e tutti/e sanno di aver la possibilità di dare.
Non c’è nessuno che non abbia bisogno degli altri, della loro consolazione, della loro testimonianza, del loro affetto e non c’è nessuno che non possa dare agli altri consolazione, testimonianza, affetto.
Nemmeno Paolo – che pure era un apostolo molto convinto del suo ruolo e del suo compito di apostolo – ha mai pensato di non aver bisogno della consolazione altrui.
Nessuno ha tutto, così da non aver bisogno degli altri e, nessuno non ha nulla così da non poter donare ad altri quello che ha ricevuto. La comunità vive e cresce nello scambio reciproco dei doni tra tutti/e, a partire dalla consolazione.
Dio ci consola affinché noi possiamo consolare, certo non soltanto le sorelle e i fratelli di chiesa.
Ma proprio le chiese, se sono le comunità dei consolati da Dio, allora sono chiamate ad essere luoghi di consolazione, che poi vuol dire luoghi di affetto concretamente vissuto, ricevuto e donato, luoghi di fiducia e di confidenza ricevuta e donata, luoghi di accoglienza ricevuta e donata, in cui si accetta il prossimo che Dio ti manda incontro e si viene accettati da lui.
Luoghi in cui i doni di Dio, a partire dalla consolazione, vengono condivisi nel circolo virtuoso del donare e del ricevere, a tutti e da tutti, poiché nessuno non ha bisogna di ricevere e nessuno non ha nulla da donare.
Il Signore ci ha donato la sua consolazione e ha voluto riunirci in una comunità affinché qui, attraverso la sua Parola e attraverso le sorelle e i fratelli che egli ci ha donato, trovassimo consolazione alle nostre afflizioni e nelle nostre fatiche.
Sia dunque davvero anche da noi benedetto il Dio e Padre del nostro Signore Gesù Cristo, il Dio di ogni consolazione.