mercoledì 11 novembre 2015

Predicazione di domenica 8 novembre su Marco 12,38-44 a cura di Massimiliano Zegna



Nel suo insegnamento Gesù diceva: «Guardatevi dagli scribi, che amano passeggiare in lunghe vesti, ed essere salutati nelle piazze, e avere i primi seggi nelle sinagoghe e i primi posti nei conviti; essi che divorano le case delle vedove e fanno lunghe preghiere per mettersi in mostra. Costoro riceveranno una maggior condanna».
Sedutosi di fronte alla cassa delle offerte, Gesù guardava come la gente metteva denaro nella cassa; molti ricchi ne mettevano assai. Venuta una povera vedova, vi mise due spiccioli che fanno un quarto di soldo. Gesù, chiamati a sé i suoi discepoli, disse loro: «In verità io vi dico che questa povera vedova ha messo nella cassa delle offerte più di tutti gli altri: poiché tutti vi hanno gettato del loro superfluo, ma lei, nella sua povertà, vi ha messo tutto ciò che possedeva, tutto quanto aveva per vivere».


Il brano odierno comprende due parti: la rottura con gli scribi e la presentazione di una povera vedova come modello di generosità.
Scriba era il nome che dai tempi di Esdra veniva dato ai maestri della Legge. Gli scribi ricevevano una formazione appropriata ed erano ritenuti e chiamati Rabbi.
Erano teologi e giuristi e le loro spiegazioni formarono presto una raccolta di norme accanto alla Legge, molti erano anche Farisei. Formavano una classe distinte molto influente e si appoggiavano ai partiti (Farisei, Sadducei, Esseni ); nel Nuovo Testamento li troviamo con i Farisei nei conflitti contro Gesù, ma non tutti gli erano nemici
Non troviamo in Marco le accese requisitorie del capitolo 23 (vv. 1-14) di Matteo contro Farisei e Scribi ma anche l’elenco di difetti elencati in questo brano (orgoglio, rapacità, ipocrisia) li bolla senza pietà ed è un indice della rottura definitiva di Gesù con loro.
Nel suo insegnamento Gesù diceva
L’insegnamento è rivolto alla folla, e al di là della folla, alla comunità dei discepoli ed è una messa in guardia da due atteggiamenti biasimevoli degli scribi: vanità e ipocrisia.
Lunghe vesti
La vanità, si manifesta nello sfoggio dell’ampio mantello del rabbi, il tallit, nella ricerca del saluto o riverenza nei luoghi frequentati dalla gente e nell’accaparrarsi i seggi più onorevoli e ambiti nei conviti e nelle assemblee
Essi che divorano
L’ipocrisia gli scribi la rivelano nell’ostentare una grande devozione, prolungando la preghiera davanti a tutti, mentre di fatto divorano i beni delle vedove.
Le case delle vedove
Le vedove erano difese giuridicamente e religiosamente in Israele, come in nessun altro popolo dell’antichità, anche se le leggi non sempre erano rispettate e il dovere di assistenza era spesso ribadito

Gesù ritiene particolarmente vergognoso il fatto che gli scribi approfittino dello stato di disagio delle vedove, approfittando della loro ospitalità e generosità e ancor più che lo facciano sotto la copertura religiosa.

Una maggior condanna
Con lo stile dei profeti Gesù lancia contro gli scribi il suo terribile giudizio di condanna.
Di fronte alla cassa delle offerte
Il versetto si apre con una rapida annotazione geografica. Il racconto si svolge nell’atrio delle donne del tempio di Gerusalemme, dove erano erette 13 trombe o cassette a forma di imbuto, per le offerte obbligatorie o libere suddivise secondo le intenzioni degli offerenti. Probabilmente lo scopo e l’entità dell’offerta dovevano essere comunicate al sacerdote incaricato.
Molti ricchi ne mettevano assai
L’osservazione delle “tante” monete gettate crea il contrasto con l’offerta della vedova.
La vedova, vi mise due spiccioli
La vedova vi getta due lepton. Il lepton è la più piccola moneta e Marco precisa che corrisponde ad un “quadrante” romano , che è un sessantaquattresimo di un “denaro”, ed era la paga giornaliera di un operaio. Il nostro testo traduce “lepton” con “spicciolo” e un quarto di soldo.

Ai tempi di Gesù non vi erano né i riflettori, né le televisioni, né i fotografi di moda e alla moda ma non mancavano i personaggi che si muovevano come se recitassero. Oggi mi è venuta in mente l'immagine di un noto cardinale che giunto non molto tempo fa all'aeroporto di Cerrione con un aereo privato ha ricevuto un baciamano di un altrettanto noto (a livello locale) parroco di una città vicina a Biella.
Penso proprio che il messaggio evangelico di Gesù non abbia tempo anche se sicuramente anche noi valdesi non siamo più ai tempi di Valdo e spesso anche i nostri atteggiamenti possono essere abbastanza simili a quelli degli scribi descritti nel testo evangelico.
L'importante è che se ci viene la tentazione di metterci in mostra poi ce ne rendiamo conto e cerchiamo di limitare il nostro desiderio di apparire.
E pensiamo anche alla figura della vedova anche se abbiamo bisogno di aumentare le nostre contribuzioni.
Pensiamo ad esempio come è nato il microcredito
Le origini del microcredito, nella sua attuale applicazione, possono essere collegate a diverse organizzazioni fondate in Bangladesh, in particolare alla Grameen Bank. La Grameen Bank, fondata da Muhammad Yunus nel 1983, è considerata il primo istituto di microcredito moderno: Yunus ha iniziato il progetto in una piccola città, chiamata Jobra, utilizzando il proprio denaro per fornire piccoli prestiti a bassi tassi d’interesse per i poveri delle campagne.
E così fu anche la storia della cooperazione in cui anch'io per un certo numero di anni ho lavorato.
La penisola italiana non aveva ancora trovato una sua unità politica quando, nel 1844 in piena Rivoluzione Industriale, un gruppo di tessitori spinti dalla pesante crisi economica decise di costituire nella cittadina inglese di Rochdale il primo spaccio cooperativo con lo scopo di "migliorare la situazione economica dei soci".
Nasceva di fatto la cooperazione e si inaugurava un periodo pionieristico che, alimentato dai primi incoraggianti successi, ben presto fece della struttura cooperativa un modello da imitare in ogni parte d'Europa.
Non rimase avulso a questo panorama di rapide trasformazioni il suolo italiano e fu il Piemonte, dove era stata recepita l'innovazione delle Associations Fraternelles di Louis Blanc e il recentissimo Statuto Albertino aveva alimentato speranze di apertura alle forme di mutuo soccorso, a tenere a battesimo le prime cooperative nostrane. Nel 1854 a Torino fu la volta della Società degli Operai mentre due anni più tardi toccò all'Associazione artistico-vetraia di Altare.
Da quel momento il processo fu inarrestabile, tanto che alla fine dell'anno 1862 si potevano contare nel Regno d'Italia ben 443 società di mutuo soccorso delle quali 209 costituite tra il 1860 ed il 1862.
Ritornando all'Evangelo di Marco e al brano dedicato all'obolo della vedova ho letto una interessante predicazione di Paolo Ribet che voglio riportare in un alcuni brani significativo.


Ultimamente ho ascoltato un racconto indiano che mi ha molto colpito. Un giorno si incontrano quattro mendicanti. Ognuno di loro ha qualcosa da mangiare: uno ha un po’ di carne, un altro un po’ di pane, il terzo una manciata di fagioli e l’ultimo ha del sale. Decidono di mettere insieme ciò che posseggono, in modo da fare un minestrone e poter stare tutti meglio. Mettono la pentola sul fuoco, fanno bollire l’acqua e, quando pensano che la minestra sia pronta, immergono il mestolo. Ma ciò che tirano su è soltanto acqua, acqua calda ed insipida: ognuno di loro ha pensato che non fosse così necessario dare quel che possedeva, perché tanto poteva bastare quanto mettevano gli altri tre.
Ho trovato molto istruttivo questo racconto, perché succede molto spesso che, quando è necessario mettere insieme le forze per raggiungere un obiettivo comune, ognuno degli interessati pensi di risparmiare sul proprio impegno e di appoggiarsi agli altri.
Illuminante, in questo senso, è allora il racconto noto come “l’obolo della vedova” di Marco 12. Siamo già nel tempo della Pasqua e Gesù, secondo il racconto di Marco, dopo aver fatto il suo ingresso a Gerusalemme, si reca ogni giorno al Tempio. Qui egli insegna, discute con i suoi avversari e compie anche dei gesti eclatanti e provocatori, come quando caccia via i mercanti ed i
cambiavalute.
In un tempo come il nostro, in cui il denaro sembra essere la misura di tutte le cose, ed in cui il fatto di possedere molto denaro pare essere la massima aspirazione di ognuno, questo piccolo ed apparentemente marginale episodio assume un significato molto importante: non è tanto importante quanto si dà, ma come si dà.
Ricordo che, quando qualche anno fa ero pastore a San Germano e si stava costruendo il nuovo Asilo dei Vecchi, venne da me un signore cattolico il quale mi versò un assegno da mezzo milione e mi disse: «Mi sto costruendo la casa e spendo tanti soldi per me: è giusto che ne dia un po’ anche per gli altri». Questo fatto mi colpì perché in molti si scusavano di non poter dare niente per l’Asilo proprio perché avevano tante spese, cioè stavano spendendo troppi soldi per sé (per farsi la casa nuova, per comprare la macchina nuova) ... quest’uomo, invece, con molta semplicità, era capace di guardare anche agli altri e non solo a se stesso”.

Questo episodio che ha raccontato Paolo Ribet mi ha fatto ricordare quanto mi aveva raccontato con semplicità un benefattore biellese che ha donato la sua villa al Fondo Edo Tempia per la lotta contro i tumori. Questo signore mi diceva che lui, se avesse voluto, poteva mangiare anche un intero pollo al giorno, ma a malapena riusciva a mangiarne mezzo e l'altro mezzo pollo riteneva giusto donarlo in beneficenza
La strada della generosità è questa ed è la strada che Dio ha scelto nei nostri confronti, quando si è donato completamente a noi sulla croce. L’apostolo Paolo esprime questa realtà con un’espressione molto plastica. Quando, nella II Corinzi, invita i credenti a fare una generosa colletta a favore dei credenti di Gerusalemme che erano nell’indigenza, egli scrive: «Voi conoscete la generosità del Signore nostro Gesù Cristo: per amor vostro, lui che era ricco, si è fatto povero per farvi diventare ricchi con la sua povertà» (I Cor. 8:9).
E la I Pietro (1:18-19) aggiunge: «Voi sapete che siete stati liberati da quella vita senza senso che avevate ereditato dai vostri padri: il prezzo del vostro riscatto non fu pagato in oro o argento, cose che passano; siete stati riscattati con il sangue prezioso di Cristo».
Oggi Gesù non ci chiede di fare come Valdo e spogliarci di tutti i nostri beni, ma di guardare con equilibrio a ciò che abbiamo sulla terra. Se è giusto lottare per una vita più dignitosa per noi è anche giusto lottare per una vita dignitosa per tutti anche sacrificando quel qualcosa in più che abbiamo di superfluo.
Credo che la ricerca della felicità sia un obiettivo molto protestante e, se si riesce, è ancora più cristiano cercare la felicità e la fratellanza.

domenica 1 novembre 2015

Predicazione di domenica 1 novembre in occasione della Domenica della Riforma, a cura di Marco Gisola

La Riforma è nata da una domanda di fede; la domanda era la seguente: che cosa vuol dire che “Dio è giusto”?
Tutti i cristiani hanno sempre creduto che Dio sia giusto. Ma in che cosa consiste la giustizia di Dio? La Riforma, in senso teologico, è nata da questa domanda.
Lutero, un anno prima di morire, scrive che la questione della giustizia di Dio lo angosciava, perché lui aveva sempre pensato – e così gli avevano sempre insegnato – che Dio è giusto e quindi punisce i peccatori ingiusti. E poiché Lutero non si sentiva giusto, era tormentato dall’idea che Dio non poteva che punirlo, perché si rendeva conto che non poteva riuscire a mettere in pratica tutta la volontà di Dio.
La risposta a questa domanda, e dunque la liberazione dall’angoscia che questa domanda gli provocava, Lutero la trova nella lettera ai Romani, al capitolo 1, laddove è detto che “Il giusto vivrà per fede” (Romani 1,17).
Lutero scopre che la giustizia di Dio non è quella per cui Egli premia i giusti e punisce i peccatori, ma è la giustizia che Dio ti dà nella sua misericordia. O con altre parole: la giustizia di Dio è identica alla sua misericordia, alla sua grazia.
C’è un altro brano della lettera ai romani in cui Paolo esprime questo in modo chiaro:


Romani 3,21-24
Ora però, indipendentemente dalla legge, è stata manifestata la giustizia di Dio, della quale danno testimonianza la legge e i profeti: vale a dire la giustizia di Dio mediante la fede in Gesù Cristo, per tutti coloro che credono - infatti non c'è distinzione: tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio - ma sono giustificati gratuitamente per la sua grazia, mediante la redenzione che è in Cristo Gesù.

Due domeniche fa, nel culto che abbiamo fatto con i bambini, abbiamo detto che i primi cristiani hanno deciso che i pagani che credevano in Gesù non dovessero essere circoncisi, perché la fede in Cristo era sufficiente e rendeva tutti uguali.
Qui Paolo dice più o meno la stessa cosa partendo da un altro punto di vista: siamo tutti uguali innanzitutto perché siamo tutti allo stesso modo peccatori e siamo tutti allo stesso modo giustificati.
Tutti peccatori e tutti giustificati. Non ci sono non-peccatori e non ci sono persone che si giustificano – cioè che diventano giuste – da sole. È Dio che ti giustifica, è Dio che ti rende giusto, perché ti regala la giustizia di Gesù, che è l’unico giusto. Per questo Gesù è morto e risorto per noi, perché fossimo giustificati, perdonati, salvati.
Non c’è distinzione, dice Paolo, tutti sono peccatori e tutti sono giustificati. Ci vuole molta umiltà per accettare che non ci sia distinzione, perché tutti noi pensiamo – non dico di essere migliori degli altri (qualcuno lo pensa) – ma come minimo pensiamo di fare il nostro meglio. E sappiamo che c’è gente che invece fa del suo peggio, in questa società...
Questa è una delle sfide poste alla chiesa, che è la comunità dei peccatori giustificati: vivere veramente il fatto che non c’è distinzione, che tutti siamo uguali, nel peccato e nella giustifica-zione.
E in questa uguaglianza davanti a Dio, trovano spazio tutte le diversità e le differenze umane che caratterizzano la nostra umanità. Le differenze convivono perché ognuno, nella sua diversità, è ugualmente peccatore e ugualmente perdonato.
Non c’è distinzione, e fare distinzioni è qualcosa che non dovremmo permetterci di fare.
Vediamo allora una storia, una parabola che racconta Gesù, in cui un uomo credente di distinzioni ne faceva eccome, e pensava di essere molto meglio degli altri:

Luca 18,9-14
Disse ancora questa parabola per certuni che erano persuasi di essere giusti e disprezzavano gli altri: «Due uomini salirono al tempio per pregare; uno era fariseo, e l'altro pubblicano. Il fariseo, stando in piedi, pregava così dentro di sé: "O Dio, ti ringrazio che io non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri; neppure come questo pubblicano. Io digiuno due volte la settimana; pago la decima su tutto quello che possiedo". Ma il pubblicano se ne stava a distanza e non osava neppure alzare gli occhi al cielo; ma si batteva il petto, dicendo: "O Dio, abbi pietà di me, peccatore!" Io vi dico che questo tornò a casa sua giustificato, piuttosto che quello; perché chiunque s'innalza sarà abbassato; ma chi si abbassa sarà innalzato».

I farisei erano ebrei che volevano mettere in pratica tutta la legge di Mosè, e anche di più; volevano fare tutta la volontà di Dio. I pubblicani erano ebrei che raccoglievano le tasse per i romani, che erano gli invasori e per di più erano pagani; e per guadagnarci chiedevano più di quello che dovevano. Erano quindi molto malvisti.
Non c’è quindi dubbio che il fariseo fosse un credente migliore del pubblicano. Il fariseo era un bravo ebreo e il pubblicano era un pessimo ebreo. Come se nella nostra chiesa ci fosse uno che passa tutto il suo tempo libero a fare volontariato e un mafioso. Il primo sarebbe un buon cristiano, il secondo un pessimo cristiano.
La colpa del fariseo della parabola è che egli disprezza chi non è bravo come lui e pensa di meritarsi il perdono di Dio grazie a tutto quello che fa. E proprio lui, che pensava di meritarsi il perdono di Dio, che pensava anzi di esserselo guadagnato, non andrà a casa giustificato.
Mentre tornerà a casa giustificato il pubblicano, la cui preghiera è semplicemente: “abbi pietà di me peccatore!”. Lui ha capito che non ha nulla da offrire a Dio e che può solo sperare di ricevere da Dio il suo perdono. Si riconosce colpevole, questo è ciò che basta a Dio per perdonarlo. Il fariseo che non si riconosce colpevole non sarà perdonato.
Il fariseo è quasi giusto, ma proprio per questo è presuntuoso e pensa di non avere bisogno del perdono di Dio; il pubblicano invece è molto sbagliato, ma se ne è reso conto e si affida a Dio.
Che cosa vuol dire questa bellissima parabola? Che tutto il bene che ha fatto il fariseo non è un merito per avere la grazia di Dio e che tutto il male che ha fatto il pubblicano non è un impedimento alla grazia di Dio.
Ma vuol anche dire un’altra cosa: che non conta il passato, buono o malvagio che sia, ma conta come ora ti poni davanti a Dio.
Non conta che cosa hai fatto prima, l’importante è che ora vai davanti a Dio non come uno che ha qualcosa di cui vantarsi, ma come uno che non ha nulla né da vantarsi, né da offrire, ma che ha solo tutto da ricevere.

Questa è l’evangelo della grazia: da solo non ce la fai, ma c'è Dio che ti salva. Come una persona che non sa nuotare, se cade in mare, ha bisogno di qualcuno che la tiri fuori. Così è per il peccatore: ha bisogno che Dio lo "tiri su" e lo salvi. Ti puoi agitare finché vuoi, ma se non viene lui a salvarti non c’è nulla da fare.
Il fariseo si affanna cercando di salvarsi da solo, il pubblicano chiede a Dio che venga lui salvarlo.


E le opere allora? Ecco un altro brano, da un’altra lettera di Paolo:

Efesini 2,8-10
Infatti è per grazia che siete stati salvati, mediante la fede; e ciò non viene da voi; è il dono di Dio. Non è in virtù di opere affinché nessuno se ne vanti; infatti siamo opera sua, essendo stati creati in Cristo Gesù per fare le opere buone, che Dio ha precedentemente preparate affinché le pratichiamo.

È ovvio che Dio vuole le nostre buone opere, anzi ce le prepara, dice Paolo, cioè ci mostra che cosa è buono e che cosa vuole che facciamo. Paolo scrive che Dio ci ha creati in Gesù Cristo per le opere buone. Ma le nostre opere sono la conseguenza del perdono, non la causa.
La Bibbia è piena di indicazioni di cose da fare, anche le lettere di Paolo lo sono, prima fra tutte l’amore per il prossimo: ama il tuo prossimo come te stesso. Dio vuole che amiamo il nostro prossimo, ce lo chiede e molto insistentemente.
Dio ci perdona e ci chiede di fare la sua volontà. Non è che ci perdona se facciamo la sua volontà, se fosse così non ce la faremmo mai... se fosse così non otterremmo mai il suo perdono.
Dio ci perdona e ci chiede di fare la sua volontà. Quando abbiamo sperimentato il suo amore  e il suo perdono, allora possiamo anche noi amare il nostro prossimo e fare tante buone opere...! non per meritarci qualcosa, ma semplicemente perché ciò che Dio ci chiede di fare è giusto.
Una immagine che mi sembra efficace che mi è stata suggerita molti anni fa è la seguente: se facciamo finta che il perdono di Dio siano dei soldi possiamo immaginarci due diversi atteggiamenti di Dio; Dio potrebbe dirci:
1. se fai la mia volontà, ti do dieci euro. Questa è la teologia delle opere, quella che spaventava Lutero, perché lui si sentiva di non farcela, pur con tutto il suo impegno, a guadagnare quei soldi, cioè a guadagnare il perdono. In questo caso le buone opere e tutto quello che fai, lo fai per i dieci euro, non perché credi in quello che fai.
Oppure Dio potrebbe dirci:
2. Eccoti dieci euro, usali secondo la mia volontà. Questa è la teologia della grazia. Ecco dieci Euro, sei libero di usarli come decidi tu. Puoi sprecarli con le slot-machines o con le sigarette, oppure usarli per comprarti un libro, oppure per offrire un panino a chi ha fame: è una tua scelta. E quindi è anche una responsabilità che Dio ti dà: Io ti faccio un dono: usalo bene, come ti ho insegnato io. Così ci dice Dio.
Io ti faccio un dono: tu usalo bene. Questa è la grazia, che libera dal peso di guadagnarsi il favore di Dio con le opere e quindi ti libera per fare tante, tantissime buone opere, che fai perché ci credi e non perché devi, che fai perché è giusto farle e non per obbligo, non per ricevere un premio, non perché temi una punizione.
Le fai perché ci credi e le tue opere – potremmo dire: la tua vita – diventa il segno e la testimonianza del perdono ricevuto, come ringraziamento per il dono che Dio ti ha fatto.
Il dono che Dio mi ha fatto non devo ricambiarlo a Dio, ma al prossimo. Il bene che Dio ha fatto a me non devo ricambiarlo a lui, ma a te, a te, e a te … e dunque ecco qui le opere, o per usare un'altra parola: il discepolato, o se volete usare una parola grossa: l’etica.
Questo è l’evangelo secondo la Riforma protestante.
E la chiesa che ruolo ha in tutto ciò? La chiesa annuncia questo evangelo. Lo proclama, lo diffonde e ovviamente cerca di viverlo, di fare ciò che Dio vuole. La chiesa è una voce che annuncia la grazia ed è mani - le nostre mani – che operano ciò che Dio vuole.
La chiesa non dà il perdono, lo annuncia. Non amministra la grazia, la annuncia. Non impartisce la benedizione, la invoca. Non perché noi “di chiesa” siamo migliori degli altri, ma perché, anzi, essendo peccatori, abbiamo sperimentato il perdono di Dio e diamo agli altri questa bella notizia, che Dio è giusto e quindi misericordioso.
Il Signore ci aiuti a affidarci serenamente alla sua grazia e a mostrargli la nostra gratitudine con le nostre opere e la nostra vita di ogni giorno.
E ci aiuti a testimoniare tutto ciò con la nostra voce e le nostre mani.