venerdì 25 dicembre 2015

Predicazione del giorno di Natale su Tito 3,4-7 a cura di Marco Gisola

Ma quando la bontà di Dio, nostro Salvatore, e il suo amore per gli uomini sono stati manifestati, egli ci ha salvati non per opere giuste da noi compiute, ma per la sua misericordia, mediante il bagno della rigenerazione e del rinnovamento dello Spirito Santo, che egli ha sparso abbondantemente su di noi per mezzo di Cristo Gesù, nostro Salvatore, affinché, giustificati dalla sua grazia, diventassimo, in speranza, eredi della vita eterna.


Nessuno se ne era ancora accorto, ma tutto era già accaduto. Il Salvatore era venuto nel mondo, ma nessuno se ne era reso conto. Gesù Cristo era nato, ma ciò era accaduto in una sconosciuta stalla di Betlemme e nessuno lo aveva notato. “La bontà di Dio, nostro Salvatore, e il suo amore per gli uomini sono stati manifestati”, ma tutto ciò è passato inosservato.
Il testo che ci viene proposto oggi per il culto di Natale non è un testo tipicamente natalizio, non è un brano che racconta la nascita di Gesù, ma un testo che riflette sul senso della venuta - e in questo senso della nascita - di Gesù.
La bontà di Dio … e il suo amore per gli uomini” si manifestano a partire dalla stalla di Betlemme, così ci raccontano i Vangeli. Tutto inizia con un parto, esperienza attraverso la quale tutti noi siamo venuti al mondo, tutto inizia con una coppia costretta ad allontanarsi da casa propria per fare un lungo viaggio, con la difficoltà di trovare un posto dove questa coppia possa alloggiare e dove far nascere questo bambino, che incarna la bontà di Dio e il suo amore per gli uomini.
La bontà di Dio … e il suo amore per gli uomini” si manifestano con un evento di cui gli esseri umani non si rendono conto - di cui non potevano rendersi conto - ma che gli angeli celebrano cantando e comunicando la loro gioia ai pastori, e per cui i sapienti dall’oriente fanno un lunghissimo viaggio avvertiti da una stella.
Angeli e astri si muovono per questo evento, ma nessun essere umano si rende conto di nulla se non quelli avvertiti personalmente dagli angeli e dagli astri. Del resto non potevano rendersene conto, perché era un evento assolutamente comune: la nascita di un bambino – seppure in condizioni difficili: lontani da casa, in una stalla… - ma era pur sempre la nascita di un bambino come ne accadono ogni giorno in ogni angolo della terra.
Questo brano dell’epistola a Tito, letto a Natale, non può non portarci a chiederci come “la bontà di Dio … e il suo amore per gli uomini” si sono manifestati, a Natale e non solo a Natale. Dio si è manifestato in Gesù in modo non eclatante, non spettacolare, non evidente, e questo non solo a Natale, ma lungo tutta la vita di Gesù.
Gesù non ha mai occupato posti di rilievo o di potere, non si è mai legato a gruppi influenti e importanti. È stato una persona senza potere e senza apparire.
Più che quello che faceva, era quello che diceva a donare speranza e gioia a molte persone e a gettarne molte altre nello scompiglio. È stato, sì, un guaritore che ha ridato salute e quindi una vita degna di questo a tante persone, ma è stato sopratutto un predicatore itinerante che ha proclamato la beatitudine ai poveri, ai perseguitati, agli operatori di pace, che ha indicato la via del perdono da un lato e del servizio dall’altro come la volontà di Dio per gli esseri umani.
Questo modo di manifestarsi di Dio ha avuto il suo culmine nella croce, nella morte di Gesù. La morte è stata la logica conseguenza del fatto che Dio ha scelto che il suo figlio conducesse una vita come tutti noi, che non poteva quindi che finire con la morte.
Ma il come, il modo in cui Gesù è morto, al pari del come è venuto nel mondo, è di nuovo testimonianza della volontà di abbassamento di Dio, del suo donarsi totalmente a noi: una morte violenta, conseguenza del rifiuto di alcuni e dell’abbandono di altri.
La bontà di Dio … e il suo amore per gli uomini” si manifestano così, perché Dio così ha deciso. Ha deciso di manifestarsi attraverso una semplice nascita in una ancor più semplice stalla, attraverso una vita vissuta nella compagnia degli ultimi, e attraverso una agonia e una morte vissute nella solitudine e nell’incomprensione.
In Gesù si è manifestata la volontà libera, gratuita e misericordiosa di Dio, volontà che gli esseri umani hanno respinto, che noi abbiamo respinto. E tutto ciò ha avuto il suo inizio a Natale, in quella stalla di Betlemme, nella nascita di un bambino, certo un evento straordinario per ogni genitore, ma un evento assolutamente comune, che mostra come Gesù volesse essere uno di noi fin dalla sua nascita.
Che cosa ha significato questo evento per noi? “quando la bontà di Dio, nostro Salvatore, e il suo amore per gli uomini sono stati manifestati, Egli ci ha salvati non per opere giuste da noi compiute, ma per la sua misericordia”. Nessuno se ne è accorto e nessuno ha fatto nulla perché accadesse, ma la salvezza era già avvenuta.
L’evento della nascita di Gesù, dell’incarnazione della Parola, la decisione di Dio di venire in mezzo a noi come uno di noi, è una evento di salvezza, una decisione di salvezza. Natale è la decisione di Dio di salvare l’umanità. La venuta di Gesù non è una decisione che Dio prende per metterci alla prova, per vedere come l’umanità avrebbe trattato Gesù, se gli avesse creduto oppure no, se avesse messo in pratica ciò che egli ha detto oppure no.
La venuta di Gesù non è un metterci alla prova da parte di Dio, semplicemente perché se quella fosse stata una prova, dovremmo concludere che l’umanità non ha superato la prova. Gesù infatti è stato respinto, rifiutato, abbandonato, ucciso. Non è stato accolto.
Se la nostra salvezza dipendesse da quanto e da come noi accogliamo Gesù e mettiamo in pratica ciò che egli ha detto, vediamo che sia ciò che narrano i Vangeli, sia ciò che vediamo quotidianamente intorno a noi ci dicono che con le nostre sole forze di certo la salvezza non l’avremmo ottenuta.
La salvezza, invece, viene, come dice la lettera a Tito, viene da fuori di noi, viene da Dio; non per niente il testo parla dell’opera dello Spirito e di Gesù, è lui il “Salvatore”, è lui che ci salva.
La venuta di Gesù è già un evento di salvezza fin dalla stalla di Betlemme. Per questo Natale è una festa gioiosa, che non ha nulla che fare con il fatto che noi siamo buoni o ‘più’ buoni, ma ha a che fare esclusivamente con “la bontà di Dio e il suo amore per gli uomini”.
Questo evento di salvezza ha come prospettiva la vita eterna: “affinché, giustificati dalla sua grazia, diventassimo, in speranza, eredi della vita eterna”. L’irruzione di Dio nella storia umana ha come conseguenza la speranza. Speranza di vita eterna, ovvero speranza di essere un giorno cittadini del regno di Dio, ma speranza anche che Dio regni e la sua volontà sia fatta già qui ed ora.
La vita eterna non soltanto un’altra vita, in un aldilà e che dura per sempre, ma è una vita altra da vivere qui ed ora. Una vita che qui ed ora riserva a volte dolore ma che è erede, cioè che guarda e si orienta, a quella vita dove dolore non ci sarà più. Una vita che qui ed ora è vissuta in un mondo pieno di ingiustizia, ma che guarda a quella vita dove non ci sarà ingiustizia.
Per questo è una vita di speranza. Come una vita di speranza diventa quella di coloro che hanno incontrato Gesù, che sono venuti a contatto con la bontà ed il suo amore per gli uomini.
In chi incontra Gesù nasce la speranza, a partire dai pastori di Betlemme, passando per i suoi discepoli, per tutte le persone che Gesù ha incontrate e guarite, donando concretamente speranza a chi non ne aveva restituendo loro salute, dignità e libertà, ovvero una vita nuova, una vita altra, e così con coloro che hanno creduto in lui dopo la sua resurrezione, noi compresi.
Quando ci si rende conto che “la bontà di Dio e il suo amore per gli uomini sono stati manifestati” nasce la speranza nella vita altra che la grazia di Dio rende possibile.


Nessuno se ne era ancora accorto, ma tutto era già accaduto. Gesù Cristo era nato, il Salvatore era venuto nel mondo in una sconosciuta stalla di Betlemme e nessuno lo aveva notato. “La bontà di Dio, nostro Salvatore, e il suo amore per gli uomini sono stati manifestati” in questo neonato, in questo modo umile e debole.
Proprio perché non si fa notare e non è evidente che nel neonato di Betlemme si manifestano la bontà e l’amore di Dio, la sua salvezza e la sua giustizia, c’è bisogno di annunciarlo. Noi abbiamo ricevuto questo annuncio di salvezza, come i pastori di Betlemme, come i magi e come Tito a cui l’apostolo rivolge questa lettera.
Ora sta a noi ripetere l’annuncio, perché un dono così grande non passi inosservato, perché l’evangelo di Gesù Cristo non resti inascoltato e continui a dare speranza all’umanità.

martedì 22 dicembre 2015

Predicazione di domenica 20 dicembre su Filippesi 4, 4-7 a cura di Massimiliano Zegna



Se avessi dovuto commentare il testo dell'epistola ai Filippesi anche solo alcuni giorni fa, non avrei avuto lo spirito ottimistico per poter trasmettere la gioia che Paolo stesso infonde agli abitanti di Filippi nel Nord della Grecia.
Avrei pensato a tutto quello che sta succedendo nel mondo a cominciare dal terrorismo che funesta la vita quotidiana di molte nazioni, per giungere ai bimbi affamati che ancora esistono a milioni nel mondo, avrei pensato a quei morti senza perché uccisi a Parigi o nel Kenya, in Siria o nella Nigeria o a quelli che nessun giornale ha riportato perché lontani dai clamori di guerre più conosciute o raccontate giorno per giorno con più dettagli.
Avrei pensato agli omicidi che anche nella nostra Italia continuano a intristire la vita quotidiana o ai mille tragici episodi di malattie, fame, miseria che esistono anche nella società del cosiddetto benessere.
Allora la speranza è morta? No per fortuna non è così e non bisogna dimenticare che accanto ai mille episodi di dolore vi sono altrettanti episodi di gioia e di felicità.
Quando Paolo scriveva questa lettera ai Filippesi si trovava in carcere e quindi non era certamente nelle condizioni di chi si trova a vivere serenamente.
La lettera è scritta da Paolo appunto mentre si trova in carcere, probabilmente durante la sua detenzione a Efeso, nel 53-55. Tradizionalmente si era pensato alla prigionia romana, ma in tempi recenti sono stati evidenziati elementi che farebbero preferire, oltre a Efeso, anche Cesarea e, con minore probabilità, Corinto.
La lettera, ispirata da sentimenti di amicizia, si rivolge alla comunità cristiana di Filippi, la prima fondata da Paolo in Europa e con la quale l'apostolo aveva un legame particolarmente armonico e affettuoso.
Filippi è una città nel nord della Grecia, situata a circa 15 chilometri dal mare. I cristiani della comunità erano prevalentemente di origine pagana, come si evince dal fatto che nella lettera Paolo, a parte una breve allusione, non cita mai l'Antico Testamento.
Eppure Paolo nonostante il carcere aveva lo spirito di chi aveva fiducia in Dio e in Gesù Cristo.
Normalmente questo tipo di lettura biblica si fa nel periodo dell'Avvento ed è un momento giusto per respirare lo spirito evangelico, ossia lo spirito del buon annuncio, della buona notizia.
Anche Maria e Giuseppe quando Gesù Cristo nacque a Betlemme non erano certo in condizioni di agiatezza: l'Evangelo di Luca racconta che il bimbo nacque in una mangiatoia perché non c'era posto per loro in albergo.
“In quella stessa regione c'erano dei pastori che stavano nei campi e di notte facevano la guardia al loro gregge. E un angelo del signore si presentò a loro e la gloria del signore risplendè attorno a loro e furono presi da gran timore. L'angelo disse loro: “non temete perché io vi porto la buona notizia di una grande gioia che tutto il popolo avrà. Oggi nella città di Davide è nato per voi un Salvatore che è il Cristo, il Signore. E questo vi servirà di segno: troverete un bambino avvolto in fasce e coricato in una mangiatoia”
Ho voluto anticipare il racconto che normalmente si legge a Natale sia perché siamo a pochi giorni dal Natale sia perché il motivo conduttore dell'epistola ai Filippesi è proprio quella della gioia.
C'è un bel libro chiamato “la gioia di credere”
Questo libro è di Madeleine Delbrel prima atea convinta e poi credente. Madeleine Delbrêl, nata nel 1904 in una famiglia cattolica ma poco praticante, a 15 anni è “strettamente atea”, a 17 sintetizza il suo ateismo proclamando “ Dio è morto…viva la morte”, a 20 anni è folgorata da Dio e inizia il suo cammino di conversione.
A questa sua radicale inversione di marcia non è certamente estraneo un gruppo di coetanei credenti con i quali si confronta e, in particolare, un certo Jean Maydieu, amico carissimo cui lei da tempo ha messo gli occhi addosso e che un bel giorno preferisce Dio a lei, decidendo di farsi prete. La ribelle, anticonformista ed emancipata ragazza, con la stessa foga con cui ha fatto aperta professione di ateismo, si tuffa in un’appassionata ed instancabile riscoperta del Dio che ha folgorato i suoi 20 anni ed attraversato così impetuosamente la sua vita. Si “tuffa” nella preghiera, coltiva il desiderio di scoprire ed approfondire il messaggio evangelico, diventa un’efficiente caposcout e, insieme all’amore per la natura, ritrova la passione per la vita semplice e la solidarietà verso gli indifesi.
Si diploma assistente sociale e nel 1933 si trasferisce a Ivry-sur-Seine, all’estrema periferia di Parigi, chiamata “la città delle 300 fabbriche” e che è un crogiuolo di tensioni, rivendicazioni salariali, lotte operaie, scontri sociali ed ideologici.
Madeleine Delbrêl morì a 60 anni, il 13 ottobre 1964 a Ivry-sur-Seine; precorritrice di tante altre belle figure di laici, sacerdoti, religiosi, che nel secolo XX, hanno scelto, specie in Italia e Francia, di vivere sulle strade del mondo, cogliendo la sfida del Vangelo e traducendola nella quotidianità a fianco dei più deboli in ogni senso, che nella storia dell’umanità sono sempre stati la maggioranza.

Ed ecco un altro scritto di Madeleine:
Fa' che da essi penetrati come "faville nelle stoppie"
noi corriamo le strade di città accompagnando l'onda delle folle contagiosi di beatitudine, contagiosi di gioia.
Perché ne abbiamo veramente abbastanza
di tutti i banditori di cattive notizie, di tristi notizie:
essi fan talmente rumore che la tua parola non risuona più.
Fa' esplodere nel loro frastuono il nostro silenzio che palpita del tuo messaggio.
C'è poi una poesia intitolata “Il filo del vestito” che mi ha colpito per la sua capacità di interpretare lo spirito di gioia della epistola ai filippesi.
Il filo del vestito
Nella mia comunità
Signore aiutami ad amare,
ad essere come il filo
di un vestito.
Esso tiene insieme
i vari pezzi
e nessuno lo vede se non il sarto
che ce l'ha messo.
Tu Signore mio sarto,
sarto della comunità,
rendimi capace di
essere nel mondo
servendo con umiltà,
perché se il filo si vede tutto è
riuscito male.
Rendimi amore in questa
tua Chiesa, perché
è l'amore che tiene
insieme i vari pezzi.
Questa epistola di Paolo ai Filippesi è stata definita il libro dell’esperienza cristiana. Esperienza che si riassume in tre parole: Cristo mi basta. Egli è la mia vita (cap. 1), il mio modello (cap. 2), il mio scopo (cap. 3), la mia forza e la mia gioia (cap. 4). Paolo non parla qui né come apostolo, né come dottore; è solo un «servitore di Cristo Gesù».
«Rallegratevi nel Signore», insiste l’apostolo. Tuttavia i motivi per piangere non gli mancano (vedere 3:18). Una brutta discordia oppone due sorelle: Evodia e Sintiche, e turba l’assemblea. Paolo esorta — o piuttosto supplica — ognuna di loro personalmente. Che noi tutti impariamo la grande lezione del cap. 2:2 (confr. Proverbi 13:10)!
La nostra dolcezza è conosciuta dai nostri fratelli e sorelle, dai nostri compagni? Quante contese cesserebbero se avessimo coscienza del fatto che il ritorno del Signore è imminente. E anche quante preoccupazioni! Mediante la preghiera, solleviamo i nostri cuori da tutto ciò che li tormenta. Per essere immediatamente esauditi? Non necessariamente, ma perché Dio possa infondervi la sua perfetta pace (v. 7). Ma come evitare i cattivi pensieri? Coltivando i buoni. Serviamoci del versetto 8 come d’un setaccio con molte griglie. Ciò che occupa in questo momento il mio spirito, è vero? è giusto? è puro? è amabile? è edificante?...
Dei pensieri purificati non potranno che tradursi in atti della stessa natura (v. 9). E quale ne sarà la conseguenza? Non più soltanto avere la pace di Dio, ma il Dio di pace che sarà «con noi» (Giovanni 14:23).
E' molto bella l'ultima frase che ho letto del brano dell'epistola di Paolo
“E la pace di Dio che supera ogni intelligenza, custodirà i vostri cuori e i vostri pensieri in Cristo Gesù”
Su questo passo ho letto su internet in una predicazione di un pastore credo pentecostale una meditazione che mi ha colpito per la sua efficacia e che vorrei leggervi.
Qualche anno fa, un uomo molto ricco voleva un dipinto sulla pace. Commissionò tre artisti per dipingere scenari pacifici. Dopo un mese gli artisti tornarono con i loro dipinti finiti. Ogni dipinto fu coperto da un velo in attesa del momento della rivelazione.
Il primo artista presentò il suo dipinto: era una bella scena di montagna. Le montagne erano coperte di pioppi verdi e fiori primaverili. Le cime maestose innevate erano alte fino a incontrare un cielo blu senza nuvole. L'uomo ricco disse: "Mi piace. Questa scena di montagna è davvero tranquilla ".
Poi il secondo artista tolse il velo dal suo capolavoro. Il suo dipinto era di una splendida vista sull'oceano. La sabbia era bianca come cristallo. Il mare era azzurro e tranquillo. Il sole stava tramontando lentamente nel cielo, mentre i suoi raggi riflettevano sul mare calmo. Nel centro dell'immagine vi erano due persone rilassate su una sedia a sdraio in riva al mare con i piedi in acqua. L'uomo ricco era molto contento. Egli disse: "Mi piace la spiaggia. Amo questo quadro. Che splendida interpretazione di pace ".
Il terzo artista tirò giù il velo dal suo dipinto e il ricco guardò il quadro con perplessità. Quest’artista aveva dipinto una cascata impetuosa. In questa scena un fiume in piena cadeva per centinaia di metri e s’infrangeva sulle rocce sottostanti. L'uomo ricco disse: "Ma in che cosa consiste la tranquillità? Mi sembra una scena tutt'altro che pacifica! Tutto quello che vedo è turbolenza. Dov’è la pace? ". Il terzo artista disse: "Guardi meglio, signore. Guardi vicino proprio sotto la cascata, dietro l’acqua e vedete una fenditura nella roccia, la vede? Sporgendosi in avanti, il ricco rispose: "Sì, la vedo, e vedo anche un uccello appollaiato in quella fessura. L'artista ha risposto: "Questo è tutto, signore! Questa è la pace! Nel bel mezzo della turbolenza rumorosa, l'uccello ha trovato un posto tranquillo. Amico mio, questa, è una vera pace, avere la pace in mezzo al caos, in mezzo a una vita turbolenta ".
L'insegnamento di Paolo nella lettera ai Filippesi è dunque che in mezzo al nostro mondo turbolento, in mezzo al caos si può avere e trovare la pace! Amen

mercoledì 11 novembre 2015

Predicazione di domenica 8 novembre su Marco 12,38-44 a cura di Massimiliano Zegna



Nel suo insegnamento Gesù diceva: «Guardatevi dagli scribi, che amano passeggiare in lunghe vesti, ed essere salutati nelle piazze, e avere i primi seggi nelle sinagoghe e i primi posti nei conviti; essi che divorano le case delle vedove e fanno lunghe preghiere per mettersi in mostra. Costoro riceveranno una maggior condanna».
Sedutosi di fronte alla cassa delle offerte, Gesù guardava come la gente metteva denaro nella cassa; molti ricchi ne mettevano assai. Venuta una povera vedova, vi mise due spiccioli che fanno un quarto di soldo. Gesù, chiamati a sé i suoi discepoli, disse loro: «In verità io vi dico che questa povera vedova ha messo nella cassa delle offerte più di tutti gli altri: poiché tutti vi hanno gettato del loro superfluo, ma lei, nella sua povertà, vi ha messo tutto ciò che possedeva, tutto quanto aveva per vivere».


Il brano odierno comprende due parti: la rottura con gli scribi e la presentazione di una povera vedova come modello di generosità.
Scriba era il nome che dai tempi di Esdra veniva dato ai maestri della Legge. Gli scribi ricevevano una formazione appropriata ed erano ritenuti e chiamati Rabbi.
Erano teologi e giuristi e le loro spiegazioni formarono presto una raccolta di norme accanto alla Legge, molti erano anche Farisei. Formavano una classe distinte molto influente e si appoggiavano ai partiti (Farisei, Sadducei, Esseni ); nel Nuovo Testamento li troviamo con i Farisei nei conflitti contro Gesù, ma non tutti gli erano nemici
Non troviamo in Marco le accese requisitorie del capitolo 23 (vv. 1-14) di Matteo contro Farisei e Scribi ma anche l’elenco di difetti elencati in questo brano (orgoglio, rapacità, ipocrisia) li bolla senza pietà ed è un indice della rottura definitiva di Gesù con loro.
Nel suo insegnamento Gesù diceva
L’insegnamento è rivolto alla folla, e al di là della folla, alla comunità dei discepoli ed è una messa in guardia da due atteggiamenti biasimevoli degli scribi: vanità e ipocrisia.
Lunghe vesti
La vanità, si manifesta nello sfoggio dell’ampio mantello del rabbi, il tallit, nella ricerca del saluto o riverenza nei luoghi frequentati dalla gente e nell’accaparrarsi i seggi più onorevoli e ambiti nei conviti e nelle assemblee
Essi che divorano
L’ipocrisia gli scribi la rivelano nell’ostentare una grande devozione, prolungando la preghiera davanti a tutti, mentre di fatto divorano i beni delle vedove.
Le case delle vedove
Le vedove erano difese giuridicamente e religiosamente in Israele, come in nessun altro popolo dell’antichità, anche se le leggi non sempre erano rispettate e il dovere di assistenza era spesso ribadito

Gesù ritiene particolarmente vergognoso il fatto che gli scribi approfittino dello stato di disagio delle vedove, approfittando della loro ospitalità e generosità e ancor più che lo facciano sotto la copertura religiosa.

Una maggior condanna
Con lo stile dei profeti Gesù lancia contro gli scribi il suo terribile giudizio di condanna.
Di fronte alla cassa delle offerte
Il versetto si apre con una rapida annotazione geografica. Il racconto si svolge nell’atrio delle donne del tempio di Gerusalemme, dove erano erette 13 trombe o cassette a forma di imbuto, per le offerte obbligatorie o libere suddivise secondo le intenzioni degli offerenti. Probabilmente lo scopo e l’entità dell’offerta dovevano essere comunicate al sacerdote incaricato.
Molti ricchi ne mettevano assai
L’osservazione delle “tante” monete gettate crea il contrasto con l’offerta della vedova.
La vedova, vi mise due spiccioli
La vedova vi getta due lepton. Il lepton è la più piccola moneta e Marco precisa che corrisponde ad un “quadrante” romano , che è un sessantaquattresimo di un “denaro”, ed era la paga giornaliera di un operaio. Il nostro testo traduce “lepton” con “spicciolo” e un quarto di soldo.

Ai tempi di Gesù non vi erano né i riflettori, né le televisioni, né i fotografi di moda e alla moda ma non mancavano i personaggi che si muovevano come se recitassero. Oggi mi è venuta in mente l'immagine di un noto cardinale che giunto non molto tempo fa all'aeroporto di Cerrione con un aereo privato ha ricevuto un baciamano di un altrettanto noto (a livello locale) parroco di una città vicina a Biella.
Penso proprio che il messaggio evangelico di Gesù non abbia tempo anche se sicuramente anche noi valdesi non siamo più ai tempi di Valdo e spesso anche i nostri atteggiamenti possono essere abbastanza simili a quelli degli scribi descritti nel testo evangelico.
L'importante è che se ci viene la tentazione di metterci in mostra poi ce ne rendiamo conto e cerchiamo di limitare il nostro desiderio di apparire.
E pensiamo anche alla figura della vedova anche se abbiamo bisogno di aumentare le nostre contribuzioni.
Pensiamo ad esempio come è nato il microcredito
Le origini del microcredito, nella sua attuale applicazione, possono essere collegate a diverse organizzazioni fondate in Bangladesh, in particolare alla Grameen Bank. La Grameen Bank, fondata da Muhammad Yunus nel 1983, è considerata il primo istituto di microcredito moderno: Yunus ha iniziato il progetto in una piccola città, chiamata Jobra, utilizzando il proprio denaro per fornire piccoli prestiti a bassi tassi d’interesse per i poveri delle campagne.
E così fu anche la storia della cooperazione in cui anch'io per un certo numero di anni ho lavorato.
La penisola italiana non aveva ancora trovato una sua unità politica quando, nel 1844 in piena Rivoluzione Industriale, un gruppo di tessitori spinti dalla pesante crisi economica decise di costituire nella cittadina inglese di Rochdale il primo spaccio cooperativo con lo scopo di "migliorare la situazione economica dei soci".
Nasceva di fatto la cooperazione e si inaugurava un periodo pionieristico che, alimentato dai primi incoraggianti successi, ben presto fece della struttura cooperativa un modello da imitare in ogni parte d'Europa.
Non rimase avulso a questo panorama di rapide trasformazioni il suolo italiano e fu il Piemonte, dove era stata recepita l'innovazione delle Associations Fraternelles di Louis Blanc e il recentissimo Statuto Albertino aveva alimentato speranze di apertura alle forme di mutuo soccorso, a tenere a battesimo le prime cooperative nostrane. Nel 1854 a Torino fu la volta della Società degli Operai mentre due anni più tardi toccò all'Associazione artistico-vetraia di Altare.
Da quel momento il processo fu inarrestabile, tanto che alla fine dell'anno 1862 si potevano contare nel Regno d'Italia ben 443 società di mutuo soccorso delle quali 209 costituite tra il 1860 ed il 1862.
Ritornando all'Evangelo di Marco e al brano dedicato all'obolo della vedova ho letto una interessante predicazione di Paolo Ribet che voglio riportare in un alcuni brani significativo.


Ultimamente ho ascoltato un racconto indiano che mi ha molto colpito. Un giorno si incontrano quattro mendicanti. Ognuno di loro ha qualcosa da mangiare: uno ha un po’ di carne, un altro un po’ di pane, il terzo una manciata di fagioli e l’ultimo ha del sale. Decidono di mettere insieme ciò che posseggono, in modo da fare un minestrone e poter stare tutti meglio. Mettono la pentola sul fuoco, fanno bollire l’acqua e, quando pensano che la minestra sia pronta, immergono il mestolo. Ma ciò che tirano su è soltanto acqua, acqua calda ed insipida: ognuno di loro ha pensato che non fosse così necessario dare quel che possedeva, perché tanto poteva bastare quanto mettevano gli altri tre.
Ho trovato molto istruttivo questo racconto, perché succede molto spesso che, quando è necessario mettere insieme le forze per raggiungere un obiettivo comune, ognuno degli interessati pensi di risparmiare sul proprio impegno e di appoggiarsi agli altri.
Illuminante, in questo senso, è allora il racconto noto come “l’obolo della vedova” di Marco 12. Siamo già nel tempo della Pasqua e Gesù, secondo il racconto di Marco, dopo aver fatto il suo ingresso a Gerusalemme, si reca ogni giorno al Tempio. Qui egli insegna, discute con i suoi avversari e compie anche dei gesti eclatanti e provocatori, come quando caccia via i mercanti ed i
cambiavalute.
In un tempo come il nostro, in cui il denaro sembra essere la misura di tutte le cose, ed in cui il fatto di possedere molto denaro pare essere la massima aspirazione di ognuno, questo piccolo ed apparentemente marginale episodio assume un significato molto importante: non è tanto importante quanto si dà, ma come si dà.
Ricordo che, quando qualche anno fa ero pastore a San Germano e si stava costruendo il nuovo Asilo dei Vecchi, venne da me un signore cattolico il quale mi versò un assegno da mezzo milione e mi disse: «Mi sto costruendo la casa e spendo tanti soldi per me: è giusto che ne dia un po’ anche per gli altri». Questo fatto mi colpì perché in molti si scusavano di non poter dare niente per l’Asilo proprio perché avevano tante spese, cioè stavano spendendo troppi soldi per sé (per farsi la casa nuova, per comprare la macchina nuova) ... quest’uomo, invece, con molta semplicità, era capace di guardare anche agli altri e non solo a se stesso”.

Questo episodio che ha raccontato Paolo Ribet mi ha fatto ricordare quanto mi aveva raccontato con semplicità un benefattore biellese che ha donato la sua villa al Fondo Edo Tempia per la lotta contro i tumori. Questo signore mi diceva che lui, se avesse voluto, poteva mangiare anche un intero pollo al giorno, ma a malapena riusciva a mangiarne mezzo e l'altro mezzo pollo riteneva giusto donarlo in beneficenza
La strada della generosità è questa ed è la strada che Dio ha scelto nei nostri confronti, quando si è donato completamente a noi sulla croce. L’apostolo Paolo esprime questa realtà con un’espressione molto plastica. Quando, nella II Corinzi, invita i credenti a fare una generosa colletta a favore dei credenti di Gerusalemme che erano nell’indigenza, egli scrive: «Voi conoscete la generosità del Signore nostro Gesù Cristo: per amor vostro, lui che era ricco, si è fatto povero per farvi diventare ricchi con la sua povertà» (I Cor. 8:9).
E la I Pietro (1:18-19) aggiunge: «Voi sapete che siete stati liberati da quella vita senza senso che avevate ereditato dai vostri padri: il prezzo del vostro riscatto non fu pagato in oro o argento, cose che passano; siete stati riscattati con il sangue prezioso di Cristo».
Oggi Gesù non ci chiede di fare come Valdo e spogliarci di tutti i nostri beni, ma di guardare con equilibrio a ciò che abbiamo sulla terra. Se è giusto lottare per una vita più dignitosa per noi è anche giusto lottare per una vita dignitosa per tutti anche sacrificando quel qualcosa in più che abbiamo di superfluo.
Credo che la ricerca della felicità sia un obiettivo molto protestante e, se si riesce, è ancora più cristiano cercare la felicità e la fratellanza.

domenica 1 novembre 2015

Predicazione di domenica 1 novembre in occasione della Domenica della Riforma, a cura di Marco Gisola

La Riforma è nata da una domanda di fede; la domanda era la seguente: che cosa vuol dire che “Dio è giusto”?
Tutti i cristiani hanno sempre creduto che Dio sia giusto. Ma in che cosa consiste la giustizia di Dio? La Riforma, in senso teologico, è nata da questa domanda.
Lutero, un anno prima di morire, scrive che la questione della giustizia di Dio lo angosciava, perché lui aveva sempre pensato – e così gli avevano sempre insegnato – che Dio è giusto e quindi punisce i peccatori ingiusti. E poiché Lutero non si sentiva giusto, era tormentato dall’idea che Dio non poteva che punirlo, perché si rendeva conto che non poteva riuscire a mettere in pratica tutta la volontà di Dio.
La risposta a questa domanda, e dunque la liberazione dall’angoscia che questa domanda gli provocava, Lutero la trova nella lettera ai Romani, al capitolo 1, laddove è detto che “Il giusto vivrà per fede” (Romani 1,17).
Lutero scopre che la giustizia di Dio non è quella per cui Egli premia i giusti e punisce i peccatori, ma è la giustizia che Dio ti dà nella sua misericordia. O con altre parole: la giustizia di Dio è identica alla sua misericordia, alla sua grazia.
C’è un altro brano della lettera ai romani in cui Paolo esprime questo in modo chiaro:


Romani 3,21-24
Ora però, indipendentemente dalla legge, è stata manifestata la giustizia di Dio, della quale danno testimonianza la legge e i profeti: vale a dire la giustizia di Dio mediante la fede in Gesù Cristo, per tutti coloro che credono - infatti non c'è distinzione: tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio - ma sono giustificati gratuitamente per la sua grazia, mediante la redenzione che è in Cristo Gesù.

Due domeniche fa, nel culto che abbiamo fatto con i bambini, abbiamo detto che i primi cristiani hanno deciso che i pagani che credevano in Gesù non dovessero essere circoncisi, perché la fede in Cristo era sufficiente e rendeva tutti uguali.
Qui Paolo dice più o meno la stessa cosa partendo da un altro punto di vista: siamo tutti uguali innanzitutto perché siamo tutti allo stesso modo peccatori e siamo tutti allo stesso modo giustificati.
Tutti peccatori e tutti giustificati. Non ci sono non-peccatori e non ci sono persone che si giustificano – cioè che diventano giuste – da sole. È Dio che ti giustifica, è Dio che ti rende giusto, perché ti regala la giustizia di Gesù, che è l’unico giusto. Per questo Gesù è morto e risorto per noi, perché fossimo giustificati, perdonati, salvati.
Non c’è distinzione, dice Paolo, tutti sono peccatori e tutti sono giustificati. Ci vuole molta umiltà per accettare che non ci sia distinzione, perché tutti noi pensiamo – non dico di essere migliori degli altri (qualcuno lo pensa) – ma come minimo pensiamo di fare il nostro meglio. E sappiamo che c’è gente che invece fa del suo peggio, in questa società...
Questa è una delle sfide poste alla chiesa, che è la comunità dei peccatori giustificati: vivere veramente il fatto che non c’è distinzione, che tutti siamo uguali, nel peccato e nella giustifica-zione.
E in questa uguaglianza davanti a Dio, trovano spazio tutte le diversità e le differenze umane che caratterizzano la nostra umanità. Le differenze convivono perché ognuno, nella sua diversità, è ugualmente peccatore e ugualmente perdonato.
Non c’è distinzione, e fare distinzioni è qualcosa che non dovremmo permetterci di fare.
Vediamo allora una storia, una parabola che racconta Gesù, in cui un uomo credente di distinzioni ne faceva eccome, e pensava di essere molto meglio degli altri:

Luca 18,9-14
Disse ancora questa parabola per certuni che erano persuasi di essere giusti e disprezzavano gli altri: «Due uomini salirono al tempio per pregare; uno era fariseo, e l'altro pubblicano. Il fariseo, stando in piedi, pregava così dentro di sé: "O Dio, ti ringrazio che io non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri; neppure come questo pubblicano. Io digiuno due volte la settimana; pago la decima su tutto quello che possiedo". Ma il pubblicano se ne stava a distanza e non osava neppure alzare gli occhi al cielo; ma si batteva il petto, dicendo: "O Dio, abbi pietà di me, peccatore!" Io vi dico che questo tornò a casa sua giustificato, piuttosto che quello; perché chiunque s'innalza sarà abbassato; ma chi si abbassa sarà innalzato».

I farisei erano ebrei che volevano mettere in pratica tutta la legge di Mosè, e anche di più; volevano fare tutta la volontà di Dio. I pubblicani erano ebrei che raccoglievano le tasse per i romani, che erano gli invasori e per di più erano pagani; e per guadagnarci chiedevano più di quello che dovevano. Erano quindi molto malvisti.
Non c’è quindi dubbio che il fariseo fosse un credente migliore del pubblicano. Il fariseo era un bravo ebreo e il pubblicano era un pessimo ebreo. Come se nella nostra chiesa ci fosse uno che passa tutto il suo tempo libero a fare volontariato e un mafioso. Il primo sarebbe un buon cristiano, il secondo un pessimo cristiano.
La colpa del fariseo della parabola è che egli disprezza chi non è bravo come lui e pensa di meritarsi il perdono di Dio grazie a tutto quello che fa. E proprio lui, che pensava di meritarsi il perdono di Dio, che pensava anzi di esserselo guadagnato, non andrà a casa giustificato.
Mentre tornerà a casa giustificato il pubblicano, la cui preghiera è semplicemente: “abbi pietà di me peccatore!”. Lui ha capito che non ha nulla da offrire a Dio e che può solo sperare di ricevere da Dio il suo perdono. Si riconosce colpevole, questo è ciò che basta a Dio per perdonarlo. Il fariseo che non si riconosce colpevole non sarà perdonato.
Il fariseo è quasi giusto, ma proprio per questo è presuntuoso e pensa di non avere bisogno del perdono di Dio; il pubblicano invece è molto sbagliato, ma se ne è reso conto e si affida a Dio.
Che cosa vuol dire questa bellissima parabola? Che tutto il bene che ha fatto il fariseo non è un merito per avere la grazia di Dio e che tutto il male che ha fatto il pubblicano non è un impedimento alla grazia di Dio.
Ma vuol anche dire un’altra cosa: che non conta il passato, buono o malvagio che sia, ma conta come ora ti poni davanti a Dio.
Non conta che cosa hai fatto prima, l’importante è che ora vai davanti a Dio non come uno che ha qualcosa di cui vantarsi, ma come uno che non ha nulla né da vantarsi, né da offrire, ma che ha solo tutto da ricevere.

Questa è l’evangelo della grazia: da solo non ce la fai, ma c'è Dio che ti salva. Come una persona che non sa nuotare, se cade in mare, ha bisogno di qualcuno che la tiri fuori. Così è per il peccatore: ha bisogno che Dio lo "tiri su" e lo salvi. Ti puoi agitare finché vuoi, ma se non viene lui a salvarti non c’è nulla da fare.
Il fariseo si affanna cercando di salvarsi da solo, il pubblicano chiede a Dio che venga lui salvarlo.


E le opere allora? Ecco un altro brano, da un’altra lettera di Paolo:

Efesini 2,8-10
Infatti è per grazia che siete stati salvati, mediante la fede; e ciò non viene da voi; è il dono di Dio. Non è in virtù di opere affinché nessuno se ne vanti; infatti siamo opera sua, essendo stati creati in Cristo Gesù per fare le opere buone, che Dio ha precedentemente preparate affinché le pratichiamo.

È ovvio che Dio vuole le nostre buone opere, anzi ce le prepara, dice Paolo, cioè ci mostra che cosa è buono e che cosa vuole che facciamo. Paolo scrive che Dio ci ha creati in Gesù Cristo per le opere buone. Ma le nostre opere sono la conseguenza del perdono, non la causa.
La Bibbia è piena di indicazioni di cose da fare, anche le lettere di Paolo lo sono, prima fra tutte l’amore per il prossimo: ama il tuo prossimo come te stesso. Dio vuole che amiamo il nostro prossimo, ce lo chiede e molto insistentemente.
Dio ci perdona e ci chiede di fare la sua volontà. Non è che ci perdona se facciamo la sua volontà, se fosse così non ce la faremmo mai... se fosse così non otterremmo mai il suo perdono.
Dio ci perdona e ci chiede di fare la sua volontà. Quando abbiamo sperimentato il suo amore  e il suo perdono, allora possiamo anche noi amare il nostro prossimo e fare tante buone opere...! non per meritarci qualcosa, ma semplicemente perché ciò che Dio ci chiede di fare è giusto.
Una immagine che mi sembra efficace che mi è stata suggerita molti anni fa è la seguente: se facciamo finta che il perdono di Dio siano dei soldi possiamo immaginarci due diversi atteggiamenti di Dio; Dio potrebbe dirci:
1. se fai la mia volontà, ti do dieci euro. Questa è la teologia delle opere, quella che spaventava Lutero, perché lui si sentiva di non farcela, pur con tutto il suo impegno, a guadagnare quei soldi, cioè a guadagnare il perdono. In questo caso le buone opere e tutto quello che fai, lo fai per i dieci euro, non perché credi in quello che fai.
Oppure Dio potrebbe dirci:
2. Eccoti dieci euro, usali secondo la mia volontà. Questa è la teologia della grazia. Ecco dieci Euro, sei libero di usarli come decidi tu. Puoi sprecarli con le slot-machines o con le sigarette, oppure usarli per comprarti un libro, oppure per offrire un panino a chi ha fame: è una tua scelta. E quindi è anche una responsabilità che Dio ti dà: Io ti faccio un dono: usalo bene, come ti ho insegnato io. Così ci dice Dio.
Io ti faccio un dono: tu usalo bene. Questa è la grazia, che libera dal peso di guadagnarsi il favore di Dio con le opere e quindi ti libera per fare tante, tantissime buone opere, che fai perché ci credi e non perché devi, che fai perché è giusto farle e non per obbligo, non per ricevere un premio, non perché temi una punizione.
Le fai perché ci credi e le tue opere – potremmo dire: la tua vita – diventa il segno e la testimonianza del perdono ricevuto, come ringraziamento per il dono che Dio ti ha fatto.
Il dono che Dio mi ha fatto non devo ricambiarlo a Dio, ma al prossimo. Il bene che Dio ha fatto a me non devo ricambiarlo a lui, ma a te, a te, e a te … e dunque ecco qui le opere, o per usare un'altra parola: il discepolato, o se volete usare una parola grossa: l’etica.
Questo è l’evangelo secondo la Riforma protestante.
E la chiesa che ruolo ha in tutto ciò? La chiesa annuncia questo evangelo. Lo proclama, lo diffonde e ovviamente cerca di viverlo, di fare ciò che Dio vuole. La chiesa è una voce che annuncia la grazia ed è mani - le nostre mani – che operano ciò che Dio vuole.
La chiesa non dà il perdono, lo annuncia. Non amministra la grazia, la annuncia. Non impartisce la benedizione, la invoca. Non perché noi “di chiesa” siamo migliori degli altri, ma perché, anzi, essendo peccatori, abbiamo sperimentato il perdono di Dio e diamo agli altri questa bella notizia, che Dio è giusto e quindi misericordioso.
Il Signore ci aiuti a affidarci serenamente alla sua grazia e a mostrargli la nostra gratitudine con le nostre opere e la nostra vita di ogni giorno.
E ci aiuti a testimoniare tutto ciò con la nostra voce e le nostre mani.

domenica 4 ottobre 2015

Predicazione di domenica 4 ottobre su Luca 12,13-21 a cura di Marco Gisola

Or uno della folla gli disse: «Maestro, di' a mio fratello che divida con me l'eredità». Ma Gesù gli rispose: «Uomo, chi mi ha costituito su di voi giudice o spartitore?» Poi disse loro: «State attenti e guardatevi da ogni avarizia; perché non è dall'abbondanza dei beni che uno possiede, che egli ha la sua vita». E disse loro questa parabola:
«La campagna di un uomo ricco fruttò abbondantemente; egli ragionava così, fra sé: "Che farò, poiché non ho dove riporre i miei raccolti?" E disse: "Questo farò: demolirò i miei granai, ne costruirò altri più grandi, vi raccoglierò tutto il mio grano e i miei beni, e dirò all'anima mia: 'Anima, tu hai molti beni ammassati per molti anni; ripòsati, mangia, bevi, divèrtiti'".  Ma Dio gli disse: "Stolto, questa notte stessa l'anima tua ti sarà ridomandata; e quello che hai preparato, di chi sarà?"  Così è di chi accumula tesori per sé e non è ricco davanti a Dio».


Gesù sta istruendo i suoi discepoli in vista della loro missione futura, quando viene interrotto da uno della folla che gli chiede un aiuto pratico: gli chiede di dirimere una questione giuridica, di eredità. Quest’uomo è in discussione – o forse sta litigando – con il fratello per via di un’eredità e chiede a Gesù di risolvere questa questione, da fare da “arbitro” o da “spartitore”. Evidentemente, a quei tempi, c’erano persone che avevano questo compito specifico in caso di eredità contese.
Ma Gesù rifiuta di prestarsi a fare lo “spartitore”, ha cose più importanti da fare e da dire. E prende lo spunto dalla richiesta di quell’uomo che gli chiedeva un aiuto per risolvere una questione di proprietà, di beni materiali, per dare un insegnamento proprio riguardo ai beni materiali e alle proprietà.
La parabola è molto nota: l’uomo ricco si preoccupa di come e dove conserverà i suoi raccolti e mentre fa progetti di abbattere e costruire granai ancora più grandi, non sa che la notte seguente dovrà morire. Non dobbiamo equivocare il senso di questa morte: non è la punizione per i suoi pensieri e per i suoi progetti. La morte che lo coglierà la notte seguente – io così l’ho intesa – è una morte naturale, e rappresenta il limite con cui egli non ha fatto i conti, perché è accecato dal suo delirio di onnipotenza e dal suo affanno di accumulare sempre più beni.
Egli pensa di poter disporre di tutto, sempre. La sua avarizia, o cupidigia, gli impedisce di vedere il limite. Non vede il limite, perché vede solo se stesso e vive solo per se stesso.
Gesù è sempre un maestro nel narrare le sue parabole: in questa parabola c’è un solo personaggio, perché nella vita di quest’uomo c’è un solo personaggio: lui stesso. l’uomo ricco basta a se stesso, parla persino con se stesso, non ha bisogno di altri interlocutori, è un dialogo tra sé e sé, è una vita tra sé e sé. Nella parabola c’è solo lui perché nella sua vita c’è solo lui.
Il grande assente nella parabola e nella sua vita è l’altro, l’altro essere umano, il prossimo, ma anche l’Altro, cioè Dio. Non accumula a vantaggio – per esempio – dei figli (ammesso che ne abbia), che almeno sarebbero un prossimo per cui lui si preoccupa. Accumula a suo esclusivo vantaggio e la sua vita è totalmente egocentrica.
Più volte torna nel dialogo che l’uomo fa con se stesso l’aggettivo possessivo: i miei raccolti, i miei granai, il mio grano, i miei beni, dirò all'anima mia: 'Anima, tu hai molti beni’...
Tutto ruota intorno a ciò che è suo. La morte improvvisa rappresenta ciò che non è suo, ovvero ciò che non è a sua disposizione, ciò che non può governare lui con la sua volontà.
“L’anima tua ti sarà ridomandata”: questa frase non è una minaccia, che vuole dirci che nel fare i nostri progetti dobbiamo fare i conti con la morte; essa piuttosto vuole dirci che nel fare i nostri progetti dobbiamo fare i conti con la vita e sapere ciò che conta veramente nella e per la nostra vita: «guardatevi da ogni avarizia; perché non è dall'abbondanza dei beni che uno possiede, che egli ha la sua vita».
La riflessione di oggi si ricollega a quella di venerdì sera sul primo comandamento: la colpa di quest’uomo è in fondo l’idolatria, egli fonda la sua vita sull’idolo della proprietà e da lì si aspetta la sua felicità.
E come dicevamo venerdì, dietro questa febbre del possesso e del possedere sempre di più, c’è in fondo l’idolatria di se stessi. L’uomo idolatra se stesso, desidera più di ogni altra cosa di essere felice con se stesso e pensa di poter ottenere questo attraverso i suoi beni.
E in questo non è cattivo, è stolto. Dobbiamo fare attenzione a come consideriamo il protagonista della parabola; la parabola non ci dice che l’uomo sia malvagio o ingiusto, non ci dice che le sue ricchezze siano frutto di azioni cattive o di ingiustizie. Magari l’uomo ha semplicemente lavorato duro e il raccolto è stato straordinariamente ricco.
Il “giudizio”, se così vogliamo dire, sull’uomo non è tanto un giudizio morale. Egli non ha trasgredito la legge e non ha fatto del male a nessuno. Non viene giudicato empio, malvagio; piuttosto l’uomo viene giudicato stolto, cioè sciocco.
Egli ha cercato la sua felicità e il senso della sua vita, laddove non c’è: nei beni. Questo indica la morte improvvisa: che la vita che quell’uomo si augurava non è dove egli la cercava. La vita va cercata altrove, e lungo tutto il suo ministero Gesù ha ripetuto più volte dove si trova la vita, nel duplice senso di senso della vita e anche di felicità.
Se Luca inserisce questo racconto nel suo vangelo, significa che la cupidigia e l’avarizia erano evidentemente problemi sentiti nelle prime comunità cristiane.
Le prime comunità erano probabilmente composte, forse in maggioranza, da poveri conquistati dal messaggio di liberazione di Gesù, ma anche da persone benestanti, come il contadino della parabola.
E probabilmente si era sperimentato che la cupidigia - oltre  a essere causa o segno di ingiustizia sociale – rovinava la comunione all’interno della chiesa.
Ecco dunque la necessità di mettere alcune cose in chiaro: la vera vita è altrove, non nei beni materiali e nel loro accumulo.
Dove sia la vita, Gesù lo dice in molti altri passaggi e lo dice anche subito dopo questo racconto, quando fa ai suoi discepoli il famoso discorso sulle preoccupazioni, e dice loro di non essere in ansia per la loro vita ecc. (lo abbiamo letto nella versione di Matteo due domeniche fa).
La vera vita è nell’affidarsi a Dio, non nell’essere ansiosi; è nel donare, non nell’accumulare. La vera vita è nella libertà – per tornare ancora alla riflessione sul primo comandamento di venerdì sera – nella libertà dalla schiavitù dei beni materiali, che non vuol dire non possedere nulla, ma vuol dire essere contenti del necessario usare ciò che si ha nella riconoscenza e nella condivisione.
Ho usato il verbo “essere contenti” e non “accontentarsi” perché accontentarsi ha una sfumatura negativa, mentre essere contenti è positivo. Dio ci vuole contenti, non ci vuole frustrati! Ma ci insegna a essere contenti di ciò che è sufficiente, non di più.
E sopratutto ci insegna a cercare la vita – ovvero il senso della vita e la felicità – con gli altri, e non da soli. La solitudine dell’uomo della parabola colpisce, Gesù non dice esplicitamente che l’uomo è solo, ma lo descrive così: solo con se stesso.
«Quello che hai preparato, di chi sarà?» la domanda “per che cosa vivi?” sembra qui diventare “per chi vivi?” E non nel senso dell’eredità, perché come abbiamo detto nella parabola non è centrale la morte, che rovina i progetti dell’uomo, ma la vita che egli ha condotto fino a qui. Per chi vivi, qui ed ora?
Per chi vivi? Per i tuoi granai? Per dei beni? Per te stesso? Sei stolto, dice Gesù. Vivi per qualcuno, non per qualcosa. Vivi la tua vita con qualcuno, non da solo. Non da solo e non per te solo. Vivila alla presenza di Dio, sotto il suo sguardo, nell’orizzonte del suo perdono,  nell’ascolto della sua Parola e non sarai solo.
Lì troverai i veri tesori, quelli che danno senso alla tua vita e la riempiono non di beni, ma di bene; non di ansia, ma di riconoscenza e di gioia per i doni che il Signore ci fa ogni giorno.
Non sarà ciò che accumuli e nemmeno ciò che fai, ma sarà ciò che ricevi che darà senso alla tua vita e ti renderà felice.

giovedì 1 ottobre 2015

Culti serali mensili

Venerdì 2 Ottobre, ore 20,30 riprendono i culti serali mensili

Ogni primo venerdì del mese ci incontriamo per un breve culto serale nel quale rifetteremo sui Dieci Comandamenti (Esodo 20,1-17)

Venerdì 2 riflettiamo sul prologo e sul primo comandamento:


«Allora Dio pronunciò tutte queste parole:

Io sono il SIGNORE, il tuo Dio, 

che ti ho fatto uscire dal paese d'Egitto, dalla casa di schiavitù.

  Non avere altri dèi oltre a me»

(Esodo 20,2-3)


predicazione su Matteo 6,25-34 di domenica 20 settembre 2015 a cura di Marco Gisola

25 «Perciò vi dico: non siate in ansia per la vostra vita, di che cosa mangerete o di che cosa berrete; né per il vostro corpo, di che vi vestirete. Non è la vita più del nutrimento, e il corpo più del vestito? 26 Guardate gli uccelli del cielo: non seminano, non mietono, non raccolgono in granai, e il Padre vostro celeste li nutre. Non valete voi molto più di loro? 27 E chi di voi può con la sua preoccupazione aggiungere un'ora sola alla durata della sua vita? 28 E perché siete così ansiosi per il vestire? Osservate come crescono i gigli della campagna: essi non faticano e non filano; 29 eppure io vi dico che neanche Salomone, con tutta la sua gloria, fu vestito come uno di loro. 30 Ora se Dio veste in questa maniera l'erba dei campi che oggi è, e domani è gettata nel forno, non farà molto di più per voi, o gente di poca fede? 31 Non siate dunque in ansia, dicendo: "Che mangeremo? Che berremo? Di che ci vestiremo?" 32 Perché sono i pagani che ricercano tutte queste cose; ma il Padre vostro celeste sa che avete bisogno di tutte queste cose. 33 Cercate prima il regno e la giustizia di Dio, e tutte queste cose vi saranno date in più. 34 Non siate dunque in ansia per il domani, perché il domani si preoccuperà di sé stesso. Basta a ciascun giorno il suo affanno.
Il testo per la predicazione di oggi, che abbiamo ascoltato dal vangelo di Matteo, fa parte del sermone sul monte, il famoso discorso che Gesù tiene a una gran folla riunita che lo ascolta e che che l'evangelista Matteo ha raccolto nei capitoli da 5 a 7 del suo vangelo.
Questo testo biblico è un invito a orientare la nostra vita nella direzione giusta, una direzione che riempia di senso la nostra vita, che la renda una vita degna di essere vissuta.
Vorrei evidenziare due cose da questo testo.
La prima riflessione prende spunto da due paroline di questo brano, due paroline in sé insignificanti che però danno il senso a tutte le altre parole molto dense del discorso di Gesù. La prima è la parolina “più”: «Non è la vita più del nutrimento, e il corpo più del vestito?».
La vita è qualcosa di più del nutrirsi e del vestirsi. Non che nutrirsi e vestirsi non siano importanti, anzi, sono cose necessarie come sanno bene quelli che non hanno da mangiare e da vestirsi, ovvero le cose basilari per sopravvivere. E quando non si hanno queste cose, vuol dire che si vive in una miseria estrema.
Ma – dice Gesù – non viviamo del necessario o per il necessario, viviamo di e per qualcosa di più. La vita è qualcosa di più, questo è il primo messaggio che riceviamo da questo brano. La vita è qualcosa di più del necessario. Può sembrare banale ma non lo è.
La questione è che il concetto di necessario nella nostra società dei consumi si è esteso e si estende quasi all’infinito. Il mondo in cui viviamo ci vuole far credere che sempre più “cose” materiali ci sono necessarie.
Non solo più cibo e vestiti – che sono effettivamente necessari – ma un elenco lunghissimo di cose che ci sembrano necessarie e invece non lo sono.
E qui non ci sono distinzioni tra ricchi e poveri, perché a volte i ricchi desiderano avere sempre di più e i poveri desiderano semplicemente avere quello che hanno i ricchi e non possono avere. Sia i ricchi, sia i poveri possono essere guidati dal desiderio di avere, solo che uno ce la fa e l’altro no.
Ed ecco allora l’altra parolina; dopo il «più», il «prima»: «cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia». Che cosa viene prima, che cosa deve orientare veramente la tua esistenza? Il regno di Dio e la sua giustizia.
Che cosa cerchi ogni giorno? Che cosa guida le tue scelte? Le cose materiali, che hai sei ricco; e che vorresti avere, se sei povero? Oppure qualcos'altro? Oppure il regno di Dio e la sua giustizia?
Non credo sia un caso che Gesù metta fianco a fianco la parola “regno di Dio” e la parola “giustizia”. Perché se il regno di Dio è l'espressione massima della giustizia di Dio, che è misericordia, che non ci appartiene, che non possiamo afferrare fino in fondo, qui sulla terra la cosa che somiglia di più al regno di Dio, che riflette un pochino della meraviglia del regno è la giustizia.
Se la nostra vita è orientata al regno di Dio che ci attende, allora essa è orientata dalla giustizia, dalla ricerca della giustizia, e dunque della pace, dell’uguaglianza, della libertà. Questa è vita nel senso pieno del termine, nel senso dell’evangelo, secondo Gesù.
Vita in cui c’è abbondanza, ma non di cose, di proprietà, ma abbondanza di amore, di relazioni umane, di comunione e amicizia, di affetto e fraternità, ma anche abbondanza di speranza e di impegno affinché il mondo sia più simile al regno di Dio, al regno di giustizia e pace che Dio vorrebbe per i suoi figli e le sue figlie.
Cercate prima il regno e la giustizia di Dio perché la vita è più del nutrimento e del vestito: un programma che è una sfida per ogni nostra giornata.

Ma perché non dobbiamo essere in ansia per le cose materiali? Perché queste cose Dio ce le ha già date! : «il Padre vostro celeste sa che avete bisogno di tutte queste cose». Questo la seconda riflessione che vorrei fare con voi. Dio nutre gli uccelli del cielo, veste i gigli dei campi, nutre e veste anche te. Questo non è romanticismo, non è ingenuità premoderna: questa è fede, fede nel Dio che si occupa quotidianamente delle sue creature.
Il fatto che parte dell’umanità ruba e distrugge quello che dovrebbe essere anche dell’altra parte dell'umanità, ovvero di tutti, non toglie che per l’evangelo tutto ciò che siamo e che abbiamo – non che abbiamo io e te, ma ciò che l’umanità nel suo insieme ha a sua disposizione – è dono di Dio.
Noi a volte pensiamo che ciò che abbiamo e ciò che siamo sia merito nostro o sia nostro diritto averlo, dimenticando che è dono di Dio e dono di Dio per tutti. Tutto ciò che ci serve per vivere è dono di Dio, la vita è dono di Dio. Un dono è per definizione gratuito. Noi viviamo in una società che invece ha monetizzato tutto, tutto ha un valore che va pagato, tutto si compra o si vende. E noi siamo completamente presi da questo meccanismo.
La prospettiva della Bibbia è molto diversa: tutto è donato, Dio ha donato tutto all'umanità, dall'aria che respiriamo, all'acqua che beviamo, alla terra su cui camminiamo o che coltiviamo, alle ricchezze che stanno sotto la terra. Tutto Dio ha donato all'umanità. Solo che alcuni si sono impossessati dei doni di Dio, hanno detto "questo è mio e se lo vuoi io te lo vendo e tu me lo paghi". Pensiamo al petrolio e a tutte le altre risorse e alle guerre che si fanno per averle. 
Ecco una sfida che questa parola ci pone: riscoprire il valore della gratuità e del dono, cercare di costruire relazioni tra le persone e i popoli non più basate sul possesso - "questo è mio" - e sul denaro – "se lo vuoi te lo vendo"...
Ma basate sulla gratuità e sulla consapevolezza che i doni di Dio non sono proprietà privata di nessuno ma sono per tutti e che come riceviamo gratuitamente i doni di Dio, siamo chiamati a condividerli gratuitamente.
Concludendo, l’evangelo ci invita oggi a due cose: ci invita a affidarci, il che non vuol dire stare ad aspettare senza fare nulla, ma vuol dire riconoscere come dono tutto ciò che abbiamo e dunque imparare a donare e a condividere quello che Dio ha donato a tutta l’umanità.
E ci invita poi a una ricerca instancabile del regno e della giustizia di Dio, che viene prima di tutto il resto, ci insegna a non limitarci a sopravvivere, ma a guardare oltre e più in alto, perché la vita è di più che sopravvivere. Ci dà un senso, uno scopo, e anche una speranza.
Come ha detto un pastore, commentando questo passo «La parola di Gesù non ci libera dalle necessità materiali, ma ci libera dalla schiavitù spirituale […] a queste necessità». Se non siamo schiavi di queste necessità, se riconosciamo che non sono i nostri sforzi, ma è Dio che ci nutre e ci veste, siamo anche liberi di cercare con gioia il regno di Dio e la sua giustizia.
Ci dia il Signore di saper vivere di questa ricerca del regno e della giustizia e di saper vivere della fiducia che egli si cura di noi.

domenica 6 settembre 2015

Predicazione di domenica 30 agosto su Luca 10,25-37 tenuta da Massimilano Zegna a Piedicavallo in piemontese (traduzione in italiano)

Il buon Samaritano

Ed ecco, un dottore della legge si alzò per metterlo alla prova e gli disse: “Maestro, che devo fare per ereditare la vita eterna?” Gesù gli disse “Nella legge che cosa sta scritto? Come leggi?”
Egli rispose: “ Ama il Signore Dio con tutto il cuore, con tutta l'anima tua, con tutta la forza tua, e il tu prossimo come te stesso”. Gesù gli disse: “Hai risposto esattamente; fa' questo, e vivrai”. Ma Egli, volendo giustificarsi, disse a Gesù: “E chi è il mio prossimo?” Gesù rispose: “Un uomo sendeva da Gerusalemme a Gerico; e s'imbattè nei briganti che lo spogliarono, lo ferirono e poi se ne andarono, lasciandolo mezzo morto. Per caso un sacerdote scendeva per quella stessa strada; e lo vide, ma passò oltre dal lato opposto. Così pure un Levita, giunto in quello stesso luogo, lo vide, ma passò oltre dal lato opposto.
Ma un samaritano che era in viaggio, passandogli accanto, lo vide e ne ebbe pietà; avvicinandosi fasciò le sue piaghe, versandovi sopra olio e vino; poi lo mise sulla propria cavalcatura, lo condusse ad una locanda e si prese cura di lui. Il giorno dopo, presi due denari, li diede all'oste e gli disse: “Prenditi cara di lui; e tutto ciò che spenderai di più. Te lo rimborserò al mio ritorno”. Quali di questi tre ti pare essere stato il prossimo di colui che si' imbattè nei ladroni?”Quegli rispose: “Colui che gli usò misericordia”. Gesù gli disse: “Va', e fa anche tu la stessa cosa”.



La parabola del buon Samaritano mi ha insegnato una cosa importante: imparare ad essere coerenti tra quello che si dice in pubblico rispetto a quello che si fa in privato. Una delle frasi che abbiamo sentito spesso nella vita specialmente riferita a proposito dei preti è questa: predica bene ma razzola male.

E in effetti la coerenza fra che cosa si dice e che cosa si fa non pare appartenere al mondo di oggi, ma già ai tempi di Gesù (parliamo di due mila anni fa) era la stessa cosa. Spesso Gesù se la prende con i cosiddetti dottori della legge o degli intransigenti farisei per farci capire che non basta conoscere a memoria il Vecchio Testamento per poter essere considerati bravi credenti in Dio.
E Gesù lo fa attraverso parabole molto significative. Una di queste è molto famosa e riguarda l'atteggiamento che si ha nei confronti di qualcuno che ha subito una violenza come nel caso dell'uomo malmenato dai briganti.
Passano tre uomini lungo la strada che scende da Gerusalemme a Gerico: il primo è un sacerdote, uno di quelli che probabilmente conosce bene il versetto 5 del capitolo 6 del Deuteronomio che dice “ Tu amerai dunque il Signore, il tuo Dio, con tutto il cuore, con tutta l'anima e con tutte le tue forze” e altrettanto conoscerà bene il Levitico in cui al versetto 18 del capitolo 19 si dice “Amerai il prossimo tuo come te stesso”.
Probabilmente queste frasi il sacerdote le avrà dette ai suoi fedeli proprio nei giorni precedenti all'incontro con il povero disgraziato che è rimasto mezzo morto dopo le percosse dei briganti.
Però che cosa fa il sacerdote? Passa oltre dall'altra parte.
La seconda persona che transita da Gerusalemme a Gerico è un levita ossia faceva parte di coloro che avevano compiti di servizio accanto ai sacerdoti, erano custodi dei templi.
Anch'esso giunto in quel luogo, vide il malcapitato e passò oltre.

A questo punto giunge un Samaritano ossia un abitante della Samaria considerato dai Giudei un eretico se non addirittura un miscredente. Comunque una persona di un territorio non proprio amico.
E questo Samaritano è l'unico a fermarsi e ad averne compassione. “Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi, caricatolo sopra il suo giumento, lo portò a una locanda e si prese cura di lui.Il giorno seguente, estrasse due denari e li diede all'albergatore, dicendo: Abbi cura di lui e ciò che spenderai in più, te lo rifonderò al mio ritorno”.
Quindi non solo si ferma, lo cura ma addirittura lo accompagna in una locanda e promette all'albergatore che se avesse avuto più spese lo avrebbe ripagato.

Il finale della parola è chiaro “Chi di questi tre ti sembra sia stato il prossimo di colui che è incappato nei briganti?". Chiede Gesù e il dottore della legge rispose: "Chi ha avuto compassione di lui". Gesù gli disse: "Va' e anche tu fa' lo stesso".Il significato appare chiaro il prossimo non è solo colui che è tuo familiare, tuo amico, del tuo stesso paese, della tua stessa fede religiosa. Qualche volta, spesso, è proprio chi è lontano da te come idee, come fede, che può magari aiutarti quando sei in difficoltà
E noi cosa faremmo ci trovassimo in quella situazione? Ho letto un culto che hanno fatto i ragazzi della chiesa metodista di Piacenza in cui una delle ragazze ha detto che forse avrebbe avuto paura di incontrare il brigante che ha malmenato il malcapitato e quindi sarebbe stata in difficoltà.
E questo è vero. Diciamo che per evitare di predicare bene e razzolare male potrei dire che durante la nostra vita dobbiamo renderci conte che a volte siamo come il sacerdote o il levita e a volte siamo come il Samaritano.
L'importante è rendersi conto dei limiti che abbiamo e che se siamo credenti dobbiamo sforzarci di essere conseguenti alla nostra fede evitando di far credere di essere sempre sicuri in tutto.
Parafrasando Seneca che diceva di essere consapevole di non sapere nulla, noi potremmo dire essere sicuri della nostra insicurezza.
Comunque facendo a me stesso la domanda su cosa avrei fatto penso che avrei cercato di aiutare il malcapitato magari telefonando alla Croce Rossa. Poi non me la sarei sentito, anche per ragioni economiche, di accudire a questa persona. Questo sarebbe stato probabilmente la mia reazione.
La parabola del buon samaritano mi ha richiamato alla mente un altro brano sempre tratto dall' Evangelo di Luca al capitolo 6 versetti 37-38
“Non giudicate e non sarete giudicati; non condannate e non sarete condannati;perdonate e vi sarà perdonato. Date e vi sarà dato; vi sarà versata in seno buona misura, pigiata, scossa, traboccante, perchè con la misura che voi misurate, sarà rimisurato a voi”.
Questo brano di Luca è sicuramente molto noto perchè è normalmente molto citato, ma è quasi considerato impossibile da realizzarsi oppure si pensa che riguardi altre persone e non noi.
Fa parte di quel modo di pensare che potremmo definire della doppiezza. Tutti siamo d'accordo che le parole dell'evangelo siano sacrosante, ma spesso pensiamo che faccia parte delle cose che si dicono e non si fanno.
Ma è proprio impossibile seguire gli insegnamenti di Gesù Cristo senza pensare che siano soltanto delle prescrizioni utili ma impraticabili, come le medicine che fanno bene ma hanno anche decine di controindicazioni?
Anch'io spesso mi sono chiesto quanti degli insegnamenti di Cristo erano impraticabili e quanti potevano essere effettivamente accolti e seguiti.
Ognuno di noi probabilmente ha il suo metro di misura ed è certo che il linguaggio di Gesù si basa anche su espressioni paradossali per rimarcare meglio quanto è bene e quanto è male fare.
Però vi sono degli insegnamenti che ricorrono spesso e quindi non sono lasciati alla libera interpretazione. O meglio la libera interpretazione riguarda il modo di attuarli. Quando Gesù dice “non giudicate e non sarete giudicati, non condannate e non sarete condannati, perdonate e vi sarà perdonato” non si riferisce certo ai magistrati che devono compiere il loro dovere interpretando le leggi di ogni paese.
Riguarda invece il modo di interpretare la propria vita. Spesso infatti ci si basa sulla convinzione che noi facciamo le cose nel modo giusto. Riteniamo normalmente che non abbiamo mai giudicato nessuno, che non abbiamo mai condannato nessuno. Poi per quanto riguarda il perdono cominciamo con i distinguo. E no! quello non lo abbiamo perdonato perchè non se lo meritava!
Quello fa delle cose che noi non avremmo mai fatto! Quello dice delle cose che non avremmo mai detto! Quello non sta seguendo gli insegnamenti di Cristo perchè è troppo impulsivo, quell'altro è troppo remissivo, quello è troppo superbo, quell'altro si fa mettere sempre i piedi in testa!
Qual è allora la verità, qual è la vera interpretazione del pensiero di Gesù Cristo?
Io penso che la vera interpretazione del pensiero di Gesù Cristo sia quella di osservare i suoi insegnamenti di amore. Poi, amore, può essere declinato in modi diversi a seconda della nostra sensibilità.
E quindi amore può mutare con il mutare dei giorni, dei tempi e delle persone. Sarebbe ingiusto dire: io da quando sono nato non ho mai mutato opinione, ho sempre avuto lo stesso sentimento nei confronti delle persone, sono sempre stato coerente, non ho mai commesso atti gravi.
E' come se uno dicesse, io non mi sono mai mosso da casa, per cui non ho mai trasgredito ad alcun comandamento, non ho mai compiuto azioni irriguardose nei confronti di nessuno, ho sempre rispettato tutti.
Probabilmente Gesù lo avrebbe trattato come quello a cui ha dato dei talenti e li ha tenuti nascosti sotto terra.
Vivere secondo gli insegnamenti evangelici, non vuol dire dunque essere immutabili ma significa far fruttare i talenti che Iddio ci ha dato. A questo punto il linguaggio di Luca diventa bello e poetico
“Date e vi sarà dato; vi sarà versata in seno buona misura, pigiata, scossa, traboccante, perchè con la misura che voi misurate, sarà rimisurato a voi”.
Quel “pigiata, scossa, traboccante” è un'immagine veramente bella e ricorda i tini ricolmi d'uva che viene pigiata, scossa e poi trabocca.
C'è un elogio alla generosità: quando si vuol dare non bisogna dare in modo striminzito, usando con parsimonia il proprio donare. Bisogna far sentire il proprio desiderio di donare in modo generoso.
Questo non è un discorso materiale: i doni non sono i regali che a volte inondano la casa dei propri figli. Anzi in questo caso i troppi regali possono portare all'indifferenza e all'abitudine.
Il dono a cui Gesù si riferisce è quello spirituale: è una parola, un sorriso, una carezza, un atteggiamento,un abbraccio; poi certamente va bene anche il dono materiale ma deve essere sempre fatto con equilibrio.
Avevo detto all'inizio che la più autentica interpretazione dell'insegnamento di Gesù Cristo è quella di seguire i suoi inviti all'amore.
Mi piacciono particolarmente i versetti dal'8 al 10 dell 'Epistola ai Romani del capitolo 13.
“Non abbiate altro debito con nessuno, se non di amarvi gli uni gli altri: perchè chi ama il prossimo ha adempiuto la legge. Infatti il “non commettere adulterio”, “non uccidere”, “non rubare”, “non concupire” e qualsiasi altro comandamento si riassumono in questa parola: “ama il tuo prossimo come te stesso”. L'amore non fa nessun male al prossimo; l'amore è quindi l'adempimento della legge.
Gesù quindi interpreta i comandamenti in modo veramente originale ed autentico; Non si tratta di osservare delle prescrizioni in negativo: non uccidere, non rubare, non fare questo, non fare quello. Si tratta di cogliere in positivo questi adempimenti.
La legge si adempie dunque con l'amore.
Per curiosità sono andato a vedere nell'Enciclopedia Zanichelli la definizione di amore: ed ecco quello che ho trovato, “molto affettuoso, inclinazione profonda verso qualcuno; attrazione sessuale verso un'altra persona; aspirazione ardente e continuata alla realizzazione di un ideale etico, religioso e similare; interesse appassionato, predilezione. forte desiderio in qualcuno”.E poi richiamata in senso figurativo, in modo un po' inconsueto per un dizionario enciclopedico, vi è la parola Dio.
Ed è vero: Dio e Amore sono da considerare per un cristiano la stessa cosa . Ed è questo il vero metro di misura, la vera bussola per orizzontarsi in questo mondo.
Nel momento in cui svolgiamo un'azione importante dobbiamo sempre chiederci perchè lo facciamo.E se la risposta è quella che la facciamo per amore, allora dobbiamo essere felici della nostra scelta e il Signore sarà felice di noi.
E adesso desidero terminare con la lettura di qualche brano del salmo 71: “La mia bocca racconterà ogni giorno la tua giustizia e le tue liberazioni perché sono innumerevoli.Proclamerò i prodigi di Dio, il Signore, ricercherò la tua giustizia, la tua soltanto.
O Dio tu mi hai istruito si dalla mia infanzia, e io, fino a oggi, ho annunziato le tue meraviglie.
E ora che sono giunta alla vecchiaia e alla canizie, o Dio, non abbandonarmi,finchè non abbia raccontato i prodigi del tuo braccio a questa generazione e la tua potenza a quelli che verranno”. Amen