lunedì 10 novembre 2014

Predicazione di domenica 9 novembre su 1 Tessalonicesi 5,1-11 di Pietro Magliola


Quanto poi ai tempi e ai momenti, fratelli, non avete bisogno che ve ne scriva; perché voi stessi sapete molto bene che il giorno del Signore verrà come viene un ladro nella notte. Quando diranno: «Pace e sicurezza», allora una rovina improvvisa verrà loro addosso, come le doglie alla donna incinta; e non scamperanno. Ma voi, fratelli, non siete nelle tenebre, cosí che quel giorno abbia a sorprendervi come un ladro; perché voi tutti siete figli di luce e figli del giorno; noi non siamo della notte né delle tenebre. Non dormiamo dunque come gli altri, ma vegliamo e siamo sobri; poiché quelli che dormono, dormono di notte, e quelli che si ubriacano, lo fanno di notte. Ma noi, che siamo del giorno, siamo sobri, avendo rivestito la corazza della fede e dell’amore e preso per elmo la speranza della salvezza. Dio infatti non ci ha destinati a ira, ma ad ottenere salvezza per mezzo del nostro Signore Gesù Cristo, il quale è morto per noi affinché, sia che vegliamo sia che dormiamo, viviamo insieme con lui. Perciò, consolatevi a vicenda ed edificatevi gli uni gli altri, come d’altronde già fate. (1 Tessalonicesi 5,1-11)


Paolo si occupa, nel brano che abbiamo letto, dell’ “ultimo giorno”, cioè del giorno del ritorno di Gesù. Se ne occupa innanzitutto per dire che non è possibile sapere in anticipo quando questo giorno verrà.
Sono stati versati fiumi d’inchiostro e si sono fatte moltissime parole per determinare con precisione il giorno del giudizio. Tentativi, tutti, evidentemente falliti, perché la Scrittura è concorde, a partire proprio da questa epistola di Paolo, probabilmente il testo più antico del Nuovo Testamento, per giungere sino all’evangelo di Luca, che abbiamo sentito prima, nell’affermare che il giorno del ritorno del Signore non sarà annunciato da segni particolari. Anzi, questo giorno è conosciuto soltanto dal padre, e neppure il Figlio lo conosce. I tentativi dell’uomo di penetrare questo mistero sono quindi sciocchi e destinati al ridicolo e al fallimento.
La chiesa di Salonicco, alla quale scrive l’apostolo Paolo, credeva nell’imminente ritorno del Signore. Era convinzione diffusa, anche dello stesso Paolo, che Gesù sarebbe ritornato in gloria mentre essi erano ancora in vita.
Il fatto che alcuni credenti fossero morti durante questa attesa aveva suscitato dei dubbi: che ne sarebbe stato di questi fratelli e sorelle defunti, e degli altri che fossero morti prima del ritorno del Signore ?
Paolo consola questa comunità ricordando ai suoi membri che il giorno del Signore deve venire all’improvviso, come senza preavviso un ladro scardina una porta per introdursi in casa e rubare, o come all’improvviso le doglie del parto assalgono la donna incinta quando deve partorire.
Non è un insegnamento nuovo, quello di Paolo: “voi sapete questo molto bene”, scrive.
Evidentemente, i Tessalonicesi sapevano tutto questo: però, a volte, è necessario ripetere concetti già noti per riportarli alla memoria o per sottolineare la loro importanza, anche per evitare letture sbagliate o interpretazioni di comodo della sitauzione reale.
Nei versetti 13 – 18 del capitolo 4 Paolo afferma che coloro i quali si sono addormentati (cioè, sono morti) verranno risvegliati, e parteciperanno anche loro all’incontro col Signore: “prima risusciteranno i morti in Cristo, poi noi viventi, che saremo rimasti, verremo rapiti insieme con loro, sulle nuvole, a incontrare il Signore nell’aria; e così saremo sempre con il Signore”.
Paolo non si limita però a consolare e a rassicurare sulla sorte dei defunti, vuole anche portare gioia e consolazione sulla sorte dei viventi.
Quelli che sono in Cristo, è il suo ragionamento, non sono nelle tenebre, non appartengono alla notte, ma vivono nella luce di Cristo, appartengono al giorno, cioè alla vita. Non vuol essere un discorso moralistico, un invito a vegliare, anche se la veglia è necessaria, ma è un’affermazione di vita, di una qualità propria del credente (ontologica, se si vogliono usare parole difficili).
Poiché i credenti sono destinati ad ottenere salvezza per mezzo di Gesù, essi sono del giorno, appartengono già sin da adesso al giorno; e rafforza questa affermazione sottolineando come essi abbiano rivestito la corazza della fede e dell’amore e indossato come elmo la speranza, cioè la fiducia o, meglio, la certezza potremmo dire, della salvezza. I verbi sono all’indicativo (non all’imperativo!), a sottolineare come questa condizione sia attuale e sia opera non dell’uomo ma di Dio.
La corazza e l’elmo facevano parte dell’equipaggiamento dei soldati dell’epoca, servivano da difesa contro i colpi dei nemici. Quello che i credenti indossano è dunque un equipaggiamento difensivo, e questo vuol dire che essi sono circondati e difesi dall’amore e dalla grazia di Dio che li difende dal male e li salva dal peccato.
I cristiani, pur appartenendo già alla luce, vivono tuttavia nel mondo, sono giustificati nella fede ma pur sempre sottoposti alla tentazione, allo stesso tempo giusti e peccatori, come diceva Lutero. Non possiamo prescindere dalla grazia di Dio né affidarci alle nostre forze per resistere al male.
Veramente Dio si rivela qui come unico conforto per l’uomo, in vita e in morte, come dice il Catechismo di Heidelberg.
Anche in questo testo Paolo ci fa intendere, in modo certo meno diretto che in altri suoi scritti, ma comunque chiaro, che ciò che importa per l’uomo è come Dio lo vede, lo aiuta e lo salva. La pratica segue in modo, per così dire, conseguente.
Concetto analogo verrà espresso nella lettera agli Efesini (2,10), quando si dirà che siamo stati creati in Cristo Gesù per fare le opere buone che Dio ha precedentemente preparate affinché le pratichiamo.
E l’opera che Paolo propone ai Tessalonicesi e a tutte le chiese che, come quella, sono disorientate davanti al prolungarsi dell’attesa del ritorno del Signore è quella di consolarsi vicendevolmente e di edificarsi gli uni gli altri.
Non c’è nessuno che possa ritenersi così forte da non aver bisogno di essere consolato, e nessuno può, al contrario, ritenersi così debole da non poter consolare un fratello.
Perché tutti dipendiamo dalla grazia di Dio, e tutti siamo chiamati a testimoniare, prima di tutto nella chiesa, questa grazia.



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