domenica 27 giugno 2010

Fiat, prendere o lasciare

Nella logica del «non ci sono alternative» cresce la disaffezione verso la politica La riconversione dell’industria dell’auto sarebbe urgente, ma non è all’orizzonte

Maurizio Girolami


O la borsa o la vita. O si accettano senza discutere le richieste dell’azienda, o la Panda resta in Polonia. Chi, in coscienza, potrebbe criticare i dipendenti della Fiat di Pomigliano che hanno votato a favore dell’accordo imposto dalla Fiat, contenente condizioni di lavoro molto pesanti (tre turni di lavoro, meno minuti di pausa, più straordinari, refezione solo a fine turno, ecc.) e per di più l’impegno a non scioperare e a non essere pagati nei primi giorni di malattia? Solo su questi ultimi punti – che ledevano due principi costituzionali – la Fiom aveva chiesto di contrattare, ma si è sentita rispondere «prendere o lasciare», dove «lasciare» significava che la Fiat voleva il massimo di consenso, pena la chiusura dello stabilimento. Per questo la Fiom non ha firmato, rimanendo isolata, con palese soddisfazione non solo di Cisl e Uil, ma soprattutto dei ministri Sacconi e Tremonti, che hanno valutato l’accordo come una vittoria del «riformismo», destinata a inaugurare un nuovo modello di rapporto tra imprenditori e sindacati.

Non avranno creduto ai loro orecchi tanti imprenditori i quali – come i loro colleghi intercettati a gongolare per gli affari che si profilavano pochi minuti dopo il terremoto dell’Aquila – hanno visto realizzarsi il sogno di avere mano libera in fabbrica sulle condizioni di lavoro e sul salario, senza temere scioperi, grazie alla firma di sindacati amici. La Fiom non ha firmato e ha saggiamente esortato i lavoratori a votare secondo la primaria esigenza di sopravvivere, ma lasciando aperta la strada del ricorso alla Corte Costituzionale sul diritto di sciopero e quello alla salute. Hanno brillato, nella vicenda, il ministro del Lavoro, attivo come una panchina di pietra nel difendere la dignità dei lavoratori, e il ministro delle Attività Produttive, provvisoriamente capo del governo, seriamente impegnato a… smantellare le indagini della magistratura con la legge sulle intercettazioni, e a presidiare, da giudice imparziale e imprenditore televisivo (quindi disinteressato) l’assegnazione delle frequenze del digitale terrestre agli imprenditori televisivi.

Vita tua mors mea, avranno pensato operai e sindacati polacchi quando hanno appreso, all’improvviso, che la nuova Panda non sarebbe stata costruita a Thiky, ma a Pomigliano. Misteri della globalizzazione.

L’amministratore delegato della Fiat Marchionne ha dichiarato qualche giorno fa che c’è una fila di paesi, anche fuori d’Europa, pronti a accogliere lo stabilimento della nuova Panda, se in Italia non si fa come dice lui. A parte la finezza dell’argomentazione, ha le sue ragioni. In Italia la Fiat è passata da 1.875.000 auto prodotte nel 1990 a 650.000 auto nel 2009, mentre l’occupazione è passata da circa 200.000 addetti a 25.000 nello stesso arco di tempo. La produzione è stata spostata a Nord-Ovest (Brasile, Usa), a Nord-Est (Serbia, Polonia) e in Cina e India. In Francia, invece, si producono in casa ancora 2 milioni di macchine e in Germania più di 5 milioni. E in questi due paesi lo Stato ha investito in ricerca e innovazione. In Italia c’è la più alta percentuale di auto per abitante e la più alta cementificazione per Kmq. È evidente inoltre che nel nostro paese l’industria dell’auto, malgrado l’assistenza dello Stato attraverso incentivi e cassa integrazione, non ha saputo innovare e quindi ha basato la sua politica di mercato soprattutto sull’abbassamento del costo della manodopera e la precarizzazione del lavoro, puntando a «cinesizzare» la classe operaia nazionale, con il ricatto di trasferire all’estero altre quote della produzione di macchine e di componentistica.

In Italia abbiamo troppe automobili e tra poco non ci sarò spazio per contenerle, mentre abbiamo solo 200 km di metropolitane (Parigi da sola ne ha 500). Sarebbe ineluttabile compiere una svolta radicale verso la riconversione dell’industria dell’auto verso altri settori: trasporti di massa (treni, metropolitane, autobus) energie rinnovabili, risparmio energetico, settori verso i quali Germania e Stati Uniti stanno concentrando investimenti in ricerca e produzione.

Ma è pensabile in Italia una gigantesca riconversione che richiederebbe investimenti pubblici e privati di grandi dimensioni? Quali risorse e quali condizioni sarebbero necessarie? I cervelli ci sono sempre stati: siamo stati i primi, per fare qualche esempio, nel nucleare, nell’informatica, nell’energia solare, nel teleriscaldamento; ma la classe dirigente (Fiat inclusa) ha ignorato e ha lasciato scappare all’estero i prototipi delle scoperte, e anche inventori e ricercatori, e seguita tuttora a chiudere loro le porte dell’università e delle imprese. Le risorse si potrebbero trovare se si facessero pagare le tasse, si riducessero le spese militari, si eliminassero i privilegi di politici, superburocrati di Stato manager.

Dunque, servirebbe una grande riforma morale della politica e del costume in grado di invertire una tendenza che da trent’anni a questa parte ha visto crescere le disuguaglianze, distruggere interi settori industriali, dilapidare il territorio. Una riforma che non è all’orizzonte, in un paese in cui non si riesce neppure a introdurre una ragionevole tassazione delle rendite finanziarie. E Marchionne, l’italo-canadese, fa ciò che i suoi azionisti gli chiedono: fare profitti e distribuire dividendi. Non importa dove, e non importa come. Si sono sentiti giudizi pesanti contro la Fiom, in questi giorni. Si sono giocati gli uni contro gli altri: lavoratori a tempo indeterminato contro precari, italiani contro polacchi, sindacati ragionevoli contro sindacati irragionevoli.

Da un lato Marchionne e il ceto politico che ci governa dimenticano (o forse a scuola non hanno studiato storia?) che imporre per diktat sacrifici a chi ha già molto pagato, senza cercare il consenso e senza dare per primi l’esempio, può far vincere una mossa, ma il più delle volte fa perdere la partita. Nella logica del «non ci sono alternative» e del «si salvi chi può» cresce la disaffezione alla politica e l’illusione che si possa sempre fare i furbi scaricando sugli altri i prezzi di una globalizzazione senza regole. Dall’altro diventa pure sterile testimonianza quella di un sindacato e di un’opposizione arroccati in difesa di principi che diventano indifendibili se non si riesce a mobilitare una maggioranza d’italiani che, sempre più disgustati, girano la testa dall’altra parte o si affidano alle promesse da marinaio di chi fino a ieri ha negato la crisi e ha promesso loro futuri radiosi.

tratto da Riforma

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