martedì 15 giugno 2010

Due milioni di «inattivi»

Una «bolla sociale» di giovani adulti a carico delle famiglie, disponibili al lavoro nero o al precariato. Un’intera generazione che non può fare progetti di vita
Doriana Giudici
I nostri vecchi dicevano che la verità viene sempre a galla. Finalmente il Governo ha riconosciuto che c’è una grave crisi. Le cifre fornite dai vari Centri di ricerca (dalla Confindustria alla Cgil) denunciano: una perdita di 700.000 posti di lavoro; il ricorso alla Cassa Integrazione è aumentato di 6 volte; il Pil (prodotto interno lordo) ha perso 7 punti; la produzione industriale è crollata del 25% e, dulcis in fundo, gli ultratrentenni inoccupati sono triplicati dal 1983.
Inoltre si è allargato il ricorso al «lavoro nero» e le organizzazioni malavitose hanno ampliato la loro presenza in tutti i settori della nostra economia. La recente manovra del Governo (di 25 miliardi) per fronteggiare questa situazione, ci sembra punti soltanto ad «aggiustare» i conti, mentre è l’intero Sistema Italia che necessita di riforme strutturali, cominciando da una seria impostazione di politiche giovanili collegate a una riqualificazione dei servizi essenziali per l’impiego, compresa una formazione continua per tutti.
È di questi giorni l’indagine Istat che denuncia la presenza di oltre 2 milioni di giovani «inattivi»; ciò non vuol dire soltanto che non lavorano, ma che non si attivano per cercare lavoro. Perché? Una prima ipotesi potrebbe riguardare la presenza di «lavoro in nero»: nessun settore sfugge a questa vergogna. Dal libero professionista (che sfrutta neo-laureati con la scusa di addestrarli) alla piccola impresa; dall’ufficio privato all’appaltatore di lavoro pubblico. È uno scandalo diffusissimo in tutte le aree e in tutti i ceti del nostro Paese, ma che non indigna più nessuno. Tanto meno impegna le organizzazioni sindacali a mobilitare gli occupati a difesa dei precari e dei sotto-occupati per riportare, in primo piano, il diritto a un lavoro tutelato e «dignitosamente remunerato».
Dovrebbe preoccupare tutti, i sindacati in primis, se crescono gli inattivi e, contestualmente, chi produce sfugge a leggi e contratti. La nostra società, così, degraderà sempre di più. Anche la proposta, fatta qualche tempo fa, di un assegno di disoccupazione non ha senso se sganciato da un sistema legislativo-contrattuale di «politica attiva del lavoro».
Senza garanzie e tutele rischia di diventare un «limbo» in cui racchiudere un’intera generazione di giovani.
Gli assegni per invalidità (vedi l’invalido civile che fa l’insegnante di surf o il cieco che guida l’auto) insegnano che c’è una incapacità dei settori pubblici e un disordine sociale che impediscono una trasparente gestione dei fondi pubblici. I giovani, anche quando studiano, si laureano e fanno stage all’estero, poi non trovano lavoro e... emigrano.
Un’altra ipotesi, riguardo l’inattività dei giovani, può essere proprio quella di non avere un supporto pubblico adeguato per il passaggio dallo studio al lavoro. Negli anni Ottanta del secolo scorso, si decise di modernizzare l’ormai obsoleto sistema di collocamento. Imprese, sindacati e dirigenti del Ministero del lavoro si impegnarono per una nuova legislazione, anche visitando Paesi europei considerati più avanzati in questo servizio, come Danimarca, Inghilterra, Svezia che diventarono punti di riferimento per elaborare una «politica attiva del lavoro» che anche aprendo a agenzie private però permettesse alle strutture pubbliche di gestire i disoccupati da un lavoro all’altro, o di trovare un primo impiego.
Un sussidio di disoccupazione con durata limitata (2 anni?); obbligo di incontri settimanali negli uffici per verificare le offerte di lavoro; corsi di formazione e di riqualificazione, erano i capisaldi di una riforma del mercato del lavoro in cui nessuno sarebbe più rimasto «solo» a puntare sulle proprie forze o alla mercè di chi offre lavoro senza garanzie.
Nel 1984 si introdusse in Italia una nuova legge per far incontrare, in modo trasparente e lecito, domanda e offerta di lavoro ma... la legge non riprendeva molti elementi fondamentali delle altre leggi europee, inoltre insufficienti stanziamenti non hanno permesso né la riqualificazione del personale addetto a quei servizi né l’acquisto di apparecchiature idonee. Oggi, chi cerca lavoro deve arrangiarsi e ricorrere alla intermediazione privata o alla solita raccomandazione! Così hanno un futuro sicuro i figli di medici, giornalisti, avvocati, commercialisti, industriali che seguono le orme paterne. La nostra società, così irrigidita, è bloccata e fa sì che i figli di artigiani, lavoratori dipendenti, pur disponendo di una preparazione, non possano mettere a frutti i sacrifici loro e dei loro genitori,
Si forma così una «bolla sociale» di giovani-adulti a carico delle famiglie, disponibili a accettare «lavoro nero» o lavoro precario. C’è una generazione che non ha prospettive sicure e non può fare progetti di vita accrescendo così il disagio sociale fra i giovani.
Per questo ci aspettavamo una finanziaria non solo di sacrifici per l’oggi ma anche di proposte capaci di sbloccare forze nuove e vitali come i giovani, per rimettere in marcia il Paese. Invece l’unica proposta che riguarda la scuola ventilata dal Ministro dell’Istruzione e da parte della maggioranza ha il sapore della istruttiva fiaba del Pinocchio di Collodi, quella che ci obbliga a sognare immaginandoci di vivere nel «paese dei balocchi»: «Facciamo cominciare le scuole a ottobre». Bene, così per quattro mesi, gli studenti si divertono, i genitori restano negli alberghi e nei campeggi con un bel guadagno per il turismo!!
A questo punto ci coglie lo sconforto ma vorremmo lo stesso suggerire ai governanti una lettura facile facile, che non affatica. La favola di Esopo, quella de «La cicala e la formica»: Non si sa mai... potrebbe aiutare!

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