giovedì 11 dicembre 2008

L'APOSTOLO PAOLO E IL SUO MESSAGGIO


L'apostolo Paolo e l'evangelo 
universale e pluralista in Europa

François Vouga è docente di Esegesi del Nuovo testamento alla Facoltà di teologia protestante di Bielefeld (Germania). Il professor Vouga è stato il 7 e l’8 novembre in Italia, a Torino e a Milano, e nelle due intense giornate ha tenuto la conferenza di cui pubblichiamo il testo. Vouga ha potuto inoltre incontrare un pubblico attento che ha posto anche molti interrogativi. Il dibattito, denso e interessante sia a Torino sia a Milano, è stato introdotto dal prof. Roberto Bottazzi della Facoltà valdese di teologia.

François Vouga

Parlare dell’apostolo Paolo come della figura fondatrice di un’Europa unita e diversa, liberale e solidale, laica e democratica, potrebbe sembrare, a prima vista, paradossale. Appare più plausibile se si guarda all’influenza esercitata dal pensiero paolino della Riforma sulla riflessione politica di Locke e sui grandi testi della Rivoluzione francese, a esempio la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, redatti da Robespierre nel 1793. Ebbene, ritengo che questa filiazione non sia casuale ma che la scoperta e il riconoscimento della vita spirituale dell’individuo, che deriva dalla gratuità dell’Evangelo, abbia dato vita all’ideale democratico, inteso nel suo senso universale, nell’immaginario della politica europea.

– Le democrazie moderne si appellano al patrocinio della Grecia antica, ma è chiaro che un sistema che si fonda sull’opposizione tra la civiltà e la barbarie e sull’esclusione delle donne, dei meteci, degli stranieri e degli schiavi, non può dare vita a un’Unione europea aperta al mondo.

– D’altra parte, la fama dell’apostolo Paolo è ormai nota. Chi evoca il suo nome provoca il più delle volte una reazione a catena di proteste. Paolo è non solo incomprensibile, si dice, ma per di più è conservatore, autoritario e settario.

L’Occidente cristiano sembra non finirla mai di regolare i conti con l’apostolo al quale deve la propria fede. Esso di solito si consola ricordandosi che il Nuovo Testamento non contiene soltanto, per fortuna, le epistole, ma anche i vangeli. Ora, quello che mi piacerebbe dimostrare è questo: la lettura delle lettere di Paolo ha provocato trasformazioni così grandi, sia nella nostra visione dell’essere umano sia nelle fondamenta moderne della politica, che l’eredità della promessa di cui viviamo dà l’illusione di essere evidente o superata. È Paolo infatti che, per la maggior parte, ha dato al pensiero religioso, filosofico, politico e sociale dell’Occidente i valori in nome dei quali il cristianesimo colto lo rigetta.

1 – Riassunto e tesi

1) La prima tesi che sosterrò è che a Paolo dobbiamo, nella storia dell’Occidente, la scoperta del soggetto personale in quanto «io», con le dimensioni di individualità, introspezione e vita spirituale dell’individuo che gli sono connesse. Questa tesi presuppone di fare una distinzione fra tre termini:

– Il concetto di individuo corrisponde alla rappresentazione e alla messa in scena di personaggi che rappresentano situazioni di vita, illustrano giudizi di valore o rappresentano comportamenti tipici. Esso personifica, come gli eroi di Omero, una domanda o un’affermazione generale sull’umanità.

– Il concetto di soggetto caratterizza l’individuo che si esprime in prima persona, che si distingue dalla collettività e che, di fronte agli altri, parla a nome proprio. Pensiamo alla poesia della Grecia antica, a Saffo a esempio, o al Socrate dell’Apologia.

– Il concetto dell’«io» designa infine il soggetto che, consapevole della propria interiorità e della propria unicità, si rivela non solo capace di prendere le distanze rispetto agli altri ma anche rispetto a sé stesso e alla propria soggettività. La tesi classica collega la scoperta dell’«io» alle Confessioni di Sant’Agostino. In realtà, essa appare già in Paolo, non solo nei suoi racconti autobiografici (Romani 7; Galati 1-2) ma soprattutto nello humour con il quale espone la sua riflessione sull’apostolato (II Corinzi 12, 1-10).

2) La seconda tesi che sosterrò è che questa scoperta dell’«io» come soggetto personale e come elemento costitutivo – universale – di ogni essere umano nasce dalla singolarità assoluta di un evento che Paolo descrive come una rivelazione di Dio: «Dio ha rivelato suo Figlio in me» (Galati 1, 12 e 16). Il senso dell’evento è evidente: Dio ha rivelato il Crocifisso come suo Figlio (Galati 3, 13), colui attraverso il quale si è rivelato come il Padre del Crocifisso. L’Evangelo di Pasqua, rivelazione di questa paternità paradossale, ha il doppio significato di una trasformazione della comprensione della verità di Dio e della verità che conferisce alla persona umana la sua identità. Essendo Padre del Crocifisso, Dio non può restare il garante delle qualità, dell’elezione, della fedeltà alla legge, della purezza o della saggezza. Egli si presenta al contrario come il Dio del riconoscimento incondizionato delle persone.

– La sua benedizione non si rivolge alla particolarità di un popolo messo da parte ma all’intera umanità, poiché colui che Egli dichiara come suo Figlio si caratterizza appunto per l’esclusione, la maledizione di cui è oggetto chiunque è appeso al legno (Galati 3, 6-14).

– Il senso della sua Alleanza non sta nella legge, la quale fa valere o squalifica gli individui in funzione della loro provenienza, della loro appartenenza e dei loro atti, ma nella universalità di un riconoscimento delle persone indipendentemente da ciò che Blaise Pascal chiama le loro qualità: indipendentemente cioè dall’insieme delle loro proprietà osservabili (Galati 3, 15-18). La distinzione che la «parola della Croce», la proclamazione pasquale di Dio come Padre del Crocifisso, fa tra il riconoscimento della persona e le sue qualità ne implica infatti una seconda: essa costituisce e fonda la necessaria distinzione, in ogni soggetto, tra interiorità ed esteriorità. Davanti a se stesso e davanti agli altri, il soggetto è esteriorità, combinazione particolare e unica di qualità. Egli è ciò che egli stesso e gli altri percepiscono di lui. La rivelazione di Pasqua del riconoscimento incondizionato della persona ridefinisce l’identità del soggetto come un’interiorità che sfugge agli sguardi e rifonda nella gratitudine e nella libertà la conversazione che egli intrattiene con se stesso. La rivelazione di un Dio altro rispetto a quello che garantisce gli ideali di perfezione della Legge, dà vita a una nuova identità dell’essere umano (Galati 2, 10).

3) La terza tesi che sosterrò è che la scoperta della persona come «io», che risulta da una rivelazione divina, e che il riconoscimento degli altri come di un «io» e quindi di un «tu», fa da fondamento a una nuova forma di società, ignota fino ad allora tanto nel giudaismo quanto nel mondo greco-romano, caratterizzata al tempo stesso dal suo universalismo e dal suo pluralismo. Devo tuttavia formulare questa tesi in modo più preciso: la novità di questa società, fondata sul riconoscimento della persona, non consiste, beninteso, né nella sola idea dell’universalismo, che domina il mondo ellenistico e romano, né in quella del pluralismo, che è un’evidenza tanto per l’antichità greca quanto per il giudaismo. Essa risiede nella possibilità e nella necessità di combinare le due. Una nuova comprensione della persona umana, risultato della singolarità assoluta della rivelazione pasquale di Dio, implica il pensiero politico di una società universalista e pluralista. La teologia paolina della giustificazione per fede significa infatti, per la prima volta nella storia del pensiero occidentale:

a) l’affermazione dell’universalità dell’elezione di ogni essere umano, di qualunque razza, di qualunque classe sociale e di qualunque sesso esso sia;

b) il rifiuto, che ne consegue, di ogni discriminazione, che essa sia basata sull’origine, l’appartenenza politica, l’educazione, le convinzioni o le lealtà personali;

c) l’invenzione e il riconoscimento di ogni essere umano, chiunque esso sia, come persona individuale, come soggetto in prima persona e come «io» chiamato a riflettere al senso della propria esistenza;

d) il riconoscimento, che ne consegue, del pluralismo: se ogni essere umano è eletto come individuo personale, come soggetto in prima persona e come «io» chiamato a riflettere al senso della propria esistenza, allora ognuno è eletto così com’è e là dove è per essere trasformato in una nuova creatura, per ricevere cioè una nuova identità che fa di lui un essere libero e responsabile.

L’universalismo pluralista di Paolo non risulta da un’idea politica ma da una rivelazione teologica di ciò che costituisce universalmente, e quindi singolarmente, l’identità della persona umana. L’affermazione della distinzione fondatrice che la giustificazione per fede opera tra l’interiorità e l’esteriorità del soggetto, tra l’identità conferita dal riconoscimento di Dio e le identità che ci attribuiamo o che distribuiamo in virtù di ciò che Pascal chiamava le qualità fittizie, è d’altronde la ragione per cui la filosofia politica post-marxista, da Alain Badiou a Giorgio Agamben, trova nel pensiero paolino il proprio riferimento privilegiato.

2 – Il significato antropologico e universale della giustificazione per fede

L’annuncio della giustificazione divina per fede di ogni essere umano non significa nient’altro che questo: ogni speranza di una giustificazione divina «per le opere della legge» è senza oggetto perché Dio non giustifica per la Legge (Galati 2, 16) e perché la legge non ha la potenza di dare vita e di giustificare.

– Se esistesse una legge che possa dare vita, spiega Paolo, allora si potrebbe parlare con pertinenza di una giustificazione per la Legge (Galati 3, 21).

– Ora, né la Legge, né alcuna legge, né alcuna delle qualità valorizzate dalla Legge e dagli ideali di perfezione che questa alimenta, sono atti a far vivere, a dare identità e senso alla vita interiore e alla coscienza della persona, al suo «io».

L’evangelo della giustificazione per fede è dunque prima di tutto il rigetto di un altro evangelo, che non è tale, che afferma, secondo Paolo, la giustificazione divina dell’essere umano in virtù delle opere della Legge.

Per Paolo, la ricerca o il tentativo di ricevere la propria giustificazione da Dio per mezzo delle opere della Legge ha un senso molto preciso. È l’epistola ai Galati che introduce questa espressione nella storia letteraria e che ci permette di vedere con esattezza di che cosa si tratta. Il volere essere giustificato per le opere della Legge significa, secondo l’epistola ai Galati, volersi fare circoncidere. Ora, che cosa significa la circoncisione? Per il giudaismo del primo secolo, la circoncisione è, insieme all’osservanza del Sabato, il segno dell’Alleanza. Volere essere giustificato per le opere della Legge significa volere appropriarsi delle qualità che delimitano l’appartenenza alla Promessa. Così facendo, si presuppone l’esistenza fondatrice di una divisione dell’umanità in due: da un lato il popolo eletto di Dio, qualificato dalla circoncisione, dall’altro i pagani, che sono esclusi dalla promessa.

Che cosa vogliono i missionari intervenuti presso i Galati dopo la partenza di Paolo? Vogliono farli circoncidere e Paolo spiega che cercano di essere «giustificati per le opere della Legge». La loro idea, così come possiamo ricostituirla a partire dall’argomentazione di Paolo, è la seguente: il cristianesimo, come realizzazione del compimento annunciato dai profeti, corrisponde proprio all’estensione dell’elezione di Israele ai pagani che si convertono. Il cristianesimo implica dunque per loro un allargamento, una liberalizzazione e una internazionalizzazione del giudaismo dato che l’Evangelo di Gesù Cristo risiede, secondo loro, nella buona notizia che la circoncisione e la Promessa sono offerte ai pagani che lo desiderano.

Che cosa li separa dall’Evangelo paolino? Esattamente ciò che è al centro delle nostre preoccupazioni:

– l’idea stessa di una divisione – necessaria e legittima – dell’umanità;

– più precisamente ancora: l’idea che sono Dio e l’elezione divina a fondare una divisione dell’umanità in categorie;

– l’idea che l’appartenenza alla collettività di un popolo eletto, anche allargato e suscettibile di essere ancora allargato, possa essere compresa come un privilegio;

– e, per quanto riguarda la concezione dell’essere umano, l’idea che la persona sia definita, qualificata e identificabile dalla sua appartenenza e dalla sua origine.

Siamo ben lontani, come si vede, dall’idea di un semplice legalismo che cercherebbe di farsi valere per mezzo delle proprie opere esemplari o dei propri meriti. Essere giustificato per le opere della Legge non vuol dire prima di tutto cercare di trovare il senso della propria vita in opere o in un fare, vuol dire pensare che l’identità dell’essere umano è data dalle sue qualità, dalle sue origini e dalle sue appartenenze.

Per mettere in risalto il nodo, teologico e antropologico, della discussione, possiamo riassumerne le poste in gioco personali, sociali e politiche nel modo seguente: il presupposto della giustificazione per le opere della Legge è che l’essere umano è amato e riconosciuto per le sue qualità e che è per queste sue qualità che egli è qualcuno davanti a Dio e davanti a sé stesso.

3 – L’invenzione della persona come tesi teologica

Che cos’è che fonda la scoperta paolina dell’«io» e la verità del suo evangelo?

La verità di cui è depositario l’apostolo, a proposito della quale ci dice e ci ripete che essa non viene dagli uomini (Galati 1, 1), che essa non gli è stata né trasmessa né insegnata da uomini (Galati 1, 10-12), questa verità gli viene da un incontro personale, da un evento che pone fine alla sua ricerca di fariseo e che diventerà il momento fondatore della sua esistenza e della sua opera apostolica.

Di questo evento parla come di una rivelazione divina: Dio gli ha rivelato suo Figlio (Galati 1, 12-16), ha visto il Risorto (I Corinzi 9, 1), il Risorto si è fatto vedere da lui (I Corinzi 15, 8).

Che cosa gli ha rivelato Dio? Che cosa ha visto?

L’espressione «Dio mi ha rivelato suo Figlio» (Galati 1, 12-16) ci avvicina alla risposta. Paolo spiega più in là: «Cristo ci ha liberato dalla maledizione della Legge diventando maledizione per noi, poiché è scritto (nella Legge): maledetto chiunque è appeso al legno» (Galati 3, 13). Ecco la risposta: Cristo è la nostra liberazione perché, lasciandosi crocifiggere, è diventato l’uomo senza qualità per eccellenza. Ora, quest’uomo senza qualità, Dio lo ha risuscitato e ha rivelato che era suo Figlio. Se adesso quest’uomo senza qualità è il Figlio di Dio, allora Dio non è un Dio che riconosce e ama l’essere umano per le sue qualità, per le sue origini, per le sue appartenenze e per le sue lealtà. Dunque, se il Crocifisso è veramente risuscitato, allora Dio non è un Dio che giustifica per le opere della Legge, in virtù cioè dei privilegi e delle qualità.

Un rovesciamento della relazione di Dio con il soggetto rovescia dunque l’immagine dell’uomo e quella che quest’ultimo è invitato a farsi di sé stesso. La distinzione tra la persona e le sue qualità e l’affermazione secondo la quale l’essere umano è prima di tutto una persona, indipendentemente dalle sue qualità, non risulta da un dato di fatto empirico. Essa appare, storicamente, come una tesi teologica.

Ora, questa tesi ha diverse conseguenze:

1) Una prima conseguenza è di natura ermeneutica. Essa consiste in una rilettura della Scrittura che fa di quest’ultima una parola il cui autore, per dirla con Giovanni Calvino, si è ormai rivelato nella persona di Gesù Cristo. L’immediatezza della rivelazione di Dio che indica all’apostolo il Crocifisso come suo proprio Figlio, fa della «croce», e cioè della proclamazione della Risurrezione del crocifisso, la chiave interpretativa del Libro. La Scrittura viene così orientata verso un evento che le è esterno e che ne costituisce al tempo stesso l’Antico Testamento e la Promessa.

2) Una seconda conseguenza riguarda la definizione che il cristianesimo dà di sé stesso: tanto la Promessa quanto la manifestazione della Rivelazione di Dio in Gesù Cristo fanno della fede, che poi è semplicemente fiducia, la categoria fondamentale dell’appartenenza all’Alleanza. Ambedue annunciano che nessuno sarà giustificato da Dio in virtù delle opere della Legge, «ma soltanto per mezzo della fede (fiducia) in Cristo Gesù» (Galati 2, 16). La fede in Gesù Cristo ha senso soltanto perché il suo punto di riferimento è la fiducia che è stata manifestata in Gesù Cristo, mentre la fede di Gesù Cristo è attuale soltanto nella misura in cui alla fiducia rivelata in Gesù Cristo fa seguito la fiducia dei credenti.

3) La terza conseguenza deriva dalla seconda: se l’ascolto dell’Evangelo si definisce come una fede, come una fiducia e non come una pratica, la linea di demarcazione della benedizione e della Promessa non si trova tra il popolo dell’Alleanza e le nazioni, bensì all’interno di ognuno. Questo spostamento implica una universalizzazione e una individualizzazione della Promessa – si passa dalla generalità all’universalità – e una universalizzazione dell’Alleanza a tutta l’umanità.

Per designare l’esistenza dei credenti, Paolo parla di «nuova creazione» (I Corinzi 5, 21; Galati 6, 15). In che cosa consiste dunque questa nuova creazione?

Una prima risposta è data implicitamente nella opposizione costruita dall’apostolo: «Non c’è più né circoncisione né incirconcisione, ma nuova creazione» (Galati 6, 15). L’idea è visibilmente che, per la potenza dell’Evangelo, Dio suscita nella persona umana qualcosa di nuovo che fa di essa un essere irriducibile alle sue qualità e alle sue appartenenze. Questo qualcosa di nuovo è un’identità personale «invisibile per gli occhi» nella quale si gioca il rapporto che Dio stabilisce con il soggetto e che il soggetto stabilisce con sé stesso. Paolo chiama quest’istanza l’«uomo interiore» e possiamo designarla come la vita spirituale di un individuo costituito come soggetto auto-riflessivo e responsabile.

L’«io» o il soggetto in prima persona che è costituito dalla giustizia di Dio e di cui Paolo, prima di Sant’Agostino, introduce la scoperta nel pensiero occidentale, è quello che rimane della persona quando si è fatto astrazione di tutte le sue qualità, vale a dire l’identità che non si può definire senza imprigionarla nelle sue qualità e che la costituisce come «io» e come «tu», come partner del dialogo con Dio, con l’altro e con sé stesso. Si capisce quindi che Paolo scriva: «Non sono più io che vivo, è Cristo che vive in me» (Galati 2, 20). Paolo non abdica la sua identità personale ma l’ha invece scoperta: non sono più io che vivo ma è la creazione nuova, il soggetto in prima persona che vive in me. Una trasformazione ha avuto luogo in lui, un nuovo essere e una nuova coscienza di se stesso sono apparse in lui: l’«io» diventato consapevole della propria soggettività, diventato persona per se stesso e indipendentemente dalle sue qualità e dai suoi atti.

4 – Nuova creazione

e nuova società

L’interpretazione della morte di Gesù che Dio rivela a Paolo significa la scoperta di una dimensione della persona irriducibile alle sue qualità, la distinzione tra l’esteriorità e l’interiorità dell’individuo e la costituzione del soggetto come la doppia istanza di un «io» che intrattiene con sé stesso un dialogo critico ed esigente. Ora, questo nuovo rapporto determina un nuovo tipo di società. Mi sembra che Emmanuel Todd lo abbia dimostrato: una delle grandi difficoltà delle società democratiche secolarizzate moderne consiste nel coniugare l’universalismo con il pluralismo:

a) o si definiscono dal loro universalismo: in questo caso, possono accettare il pluralismo soltanto entro i limiti di un certo consenso politico e sociale. L’affermazione identitaria di minoranze mette infatti in scacco le loro pretese di uguaglianza universale. L’ideologia politica dell’Impero romano, che costituisce uno degli orizzonti del pensiero paolino, si definiva già dal suo universalismo e dai suoi tentativi politici, filosofici, religiosi e sociali di integrare le minoranze. Le sue élite politiche e intellettuali si sono quindi sforzate, a nome della modernità e della ragione, di sradicare il cristianesimo nascente.

b) o si definiscono dal pluralismo ed è la loro particolarità che fonda la loro identità. In questo caso, possono concepire l’universalismo soltanto come un sistema simbolico nel quale le appartenenze si escludono reciprocamente e si smarcano le une dalle altre. Questa era già la caratteristica dell’atteggiamento delle città della Grecia classica nei confronti dei barbari e quella della teologia dell’elezione che costituisce un altro aspetto del contesto nel quale si sviluppa la riflessione dell’apostolo.

Nell’affermare che in Cristo, cioè nella nuova creazione, non c’è né giudeo né greco, né schiavo né libero, né uomo né donna, Paolo non fa altro che trarre le conseguenze della sua scoperta di Dio e dell’individuo come soggetto in prima persona:

– Le differenze sono prese in considerazione: la comunità è costituita di Giudei, di Greci, di schiavi e di gente libera, di uomini e donne.

– Ognuno però è riconosciuto come persona indipendentemente dalle sue qualità e dalle sue appartenenze.

– Ne consegue che ognuno è riconosciuto come soggettività individuale con i doni che ha ricevuto e con le qualità e le appartenenze che gli sono proprie.

Su questa base, l’argomentazione dell’apostolo dà forma, nella comunità dei battezzati, a un universalismo pluralista che fonda l’idea moderna di una società aperta. La metafora del corpo, come si è sviluppata in I Corinzi 12, 1-31, serve da modello alla sua configurazione politica. L’immagine del corpo è ben nota agli ideologi dell’aristocrazia romana. Essa serve ad affermare la necessità della coesione sociale per il bene comune. Il punto di vista difeso è quello dell’alto della scala sociale e la solidarietà richiesta è quella che, con la pretesa di essere vantaggiosa per tutti, assicura l’unità attorno alle classi privilegiate. L’inattività apparente dello stomaco, che pure è indispensabile all’intero organismo, non sta forse a dimostrare l’utilità dell’ozio dei padroni? La complementarietà dei membri fonda la lealtà richiesta degli schiavi.

Paolo rovescia l’orientamento dell’immagine. Essa gli serve per formulare una serie di principi miranti a coniugare l’universalità e il pluralismo nella realtà sociale delle comunità locali (I Corinzi 12, 1-31) e della Chiesa universale (Romani 12, 3-8).

1) Il primo principio – universalista – riconosce la qualifica di ognuno dei membri, senza eccezione, in base a doni che gli sono propri.

2) Il secondo principio – unitario – attribuisce l’insieme dei doni presenti nella comunità all’azione creatrice dello stesso Spirito. I carismi non sono delle qualità personali ma l’opera dello Spirito che li distribuisce gratuitamente e ne definisce la finalità.

3) Il terzo principio – pluralista – constata la necessità della differenza che, sola, permette la complementarietà dei membri del corpo.

4) Il quarto principio – egualitarista – afferma l’onore particolare dovuto ai membri incaricati delle funzioni meno privilegiate.

5) Il quinto principio – regolatore – ricorda il posto particolare degli apostoli, degli insegnanti e dei profeti la cui responsabilità è il richiamo dell’Evangelo come verità fondatrice della nuova società.

L’interesse di questo modello è di pensare una struttura politica nella quale universalismo e pluralismo non sono in concorrenza ma si rafforzano reciprocamente. L’ecclesiologia paolina riesce a evitare l’opposizione di cui parlava Emmanuel Todd. Ci riesce fondando le regole della pratica sociale su un’antropologia che declassa le qualità e le appartenenze facendo una distinzione tra l’esteriorità e l’interiorità e affermando il primato universale della persona come soggettività e come vita spirituale.

L’Evangelo paolino e l’universalismo pluralista che esso fonda costituiscono le radici della coscienza politica dell’identità europea:

1) Il riconoscimento dell’individuo come soggetto in prima persona, consapevole di se stesso e quindi responsabile, ha dato vita, nella storia religiosa, sociale e politica dell’Occidente, alla realtà di un universalismo pluralista che fonda e alimenta l’ideale democratico della cristianità.

2) Il riconoscimento dell’individuo come soggetto in prima persona è stato la conseguenza di un cambiamento dell’immagine di Dio. Essa è il corollario di una tesi teologica di cui occorre far memoria onde sventare l’alternativa che viene imposta simmetricamente dall’universalismo religioso della secolarizzazione e dal differenzialismo degli integralismi.

3) L’universalismo pluralista è reso possibile dal riconoscimento e dal rispetto universali della soggettività come interiorità e dall’abbandono delle definizioni identitarie generali e astratte che riducono la persona a una o più delle sue qualità, delle sue appartenenze e delle sue lealtà.

(Traduzione dal francese di Jean-Jacques Peyronel)

tratto da: Riforma, anno 144 - n. 48 - 12 dicembre 2008
www.riforma.it 

Nessun commento: