sabato 22 novembre 2008

CARA FAMIGLIA ENGLARO

La sentenza della Cassazione sul caso Englaro ha chiuso, finalmente, una delle più tristi pagine della nostra vita repubblicana. Si poteva temere che le vili pressioni mediatiche potessero intimorire i giudici: non è stato così, e con questa limpida sentenza è stato ribadito lo stato di diritto della nostra democrazia. Ne respira anche la laicità dello Stato, bene prezioso per la libertà di tutti i cittadini e in particolare per la famiglia Englaro che ha portato la propria croce per oltre 16 anni; una croce pesantissima di per sé, e resa ancora più pesante dalle inaudite e ignobili invettive pronunciate da persone irresponsabili e ciniche, del mondo politico come di quello religioso.
Quanti giudizi… e da quali pulpiti!
Cara famiglia Englaro, ora non possiamo che rivolgervi questo augurio: che l’amore che avete saputo dare alla vostra figlia continui a vivere dentro di voi e sia la forza della vostra vita, al di là delle tante parole-pietre prive di misericordia che vi sono state lanciate contro; e che possiate finalmente elaborare questo lutto difficile. Ma sentitevi anche accompagnati dall’affetto di molte persone che non si sono mai permesse di giudicarvi e che vi hanno capito.
La sentenza della Cassazione non ha chiuso il dibattito su che cosa si debba intendere per vita umana, al contrario, lo ha mantenuto aperto. È un caso che ora vi sia grande fretta di varare una legge sulle dichiarazioni anticipate di trattamento? Al di là di questa affrettata sensibilità che sembra volersi contrapporre alla sentenza della Cassazione, come mai è cresciuta, in questi anni, l’attenzione a questa specifica questione? Certamente il caso Welby e ora il caso Englaro hanno avuto una funzione di coscientizzazione di massa.
Dal momento in cui la tecnologia medica applicata al corpo umano ha fatto esplodere definitivamente il confine tra natura e vita, questa rottura ha modificato bruscamente e brutalmente l’immaginario del morire, della medicina e del medico. Questi ultimi possono essere amici, ma possono diventare dei potenziali nemici. E se dovesse succedere a me ciò che è successo a Eluana e a tante altre persone che sopravvivono in quelle condizioni? È ancora una società umana, una società che mi impone di continuare a vivere in condizioni di totale incoscienza, senza più relazioni con chi mi sta vicino? Uno stato vegetativo permanente (di questo si tratta) è ancora vita? Che senso può mai avere insistere sul principio astratto (e ideologico) di non-disponibilità della vita quando la vita stessa non è più disponibile per chi la vive?
Che senso può avere il principio di inviolabilità della vita quando quella vita è stata violata e distrutta dal male? La posizione dello Stato Vaticano e della gerarchia cattolica costituiscono veramente uno “straniero morale” inaccettabile per una comprensione evangelica della vita quale ci è testimoniata nelle Scritture. Qui non c’è alcun “evangelo della vita” ma l’esigenza di fare spazio alla vita dell’evangelo, al suo messaggio di liberazione e di promessa. C’è ancora spazio per pronunciare dei giudizi? L’invito evangelico a “non giudicare” richiede piuttosto la nostra conversione: sapere ascoltare la sofferenza e il dolore che gridano al cielo e cercano dei volti umani capaci di condividerli.

Ermanno Genre
docente di Teologia Pratica alla Facoltà Valdese di Teologia di Roma

tratto da: RIFORMA anno 144 - numero 45 - 21 novembre 2008, p. 1.
www.riforma.it

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