venerdì 5 settembre 2008

AI CONFINI DELLA VITA


dal quotidiano: La Repubblica,
www.repubblica.it
Cronaca
(consultato: venerdì 5 settembre, ore 15.10)




Mentre la morte cerebrale continua a far discutere, 
i medici anestesisti 

raccontano il momento delicato del passaggio dall'esistenza alla morte

L'ultimo minuto

Quando la vita finisce


di MAURIZIO CROSETTI


TORINO - Un'ultima scarica di adrenalina, il cuore che smarrisce il ritmo ma ancora non si ferma, la pressione arteriosa che s'impenna. Poi più nulla. Così muore il cervello, così si consuma l'ultimo minuto della vita, prima che i medici stabiliscano la morte cerebrale: un luogo da dove è impossibile tornare. E quel momento non appartiene a filosofi, teologi, politici, opinionisti: ci sono solo un corpo già oltre l'agonia, un medico, un respiratore artificiale e una famiglia che attende l'irreparabile notizia. 

Ospedale Molinette di Torino, reparto di rianimazione. Il professor Pier Paolo Donadio, primario, racconta l'ultimo minuto della vita di un uomo. Quello che accade alle cellule cerebrali quando - come la legge stabilisce da 40 anni - vi è la "cessazione irreversibile di tutte le funzioni dell'encefalo". Le inevitabili domande: la persona, quando muore il suo cervello, è morta davvero? Com'è possibile considerare già cadavere un corpo ancora caldo e che respira, anche se collegato a una macchina? Come chiedere ai parenti il consenso all'espianto degli organi? È un viaggio dentro un doppio mistero: la fine della vita, la comprensione della morte dentro un corpo con un cuore che ancora batte. 

Forse la morte abita dentro questo schermo di computer che il professore mostra con delicatezza, voltandolo un po': è un arcipelago di isole blu notte, appena cerchiate di un pallido azzurro. "L'azzurro è l'ossigeno, vede, ormai è solo all'esterno del cervello, tutto il resto non esiste più". Da quell'arcipelago non si torna: è la morte cerebrale vista da una "spect", vale a dire una scintigrafia (liquido di contrasto, immagine, verdetto). Il professor Pier Paolo Donadio, primario di anestesia e rianimazione all'ospedale Molinette di Torino, non ha dubbi: "Io non sono un filosofo e neppure un teologo, pur essendo un credente. Non so cos'è la morte, ma so quando è avvenuta. E so cosa dice la legge, per la quale la morte cerebrale è "cessazione irreversibile di tutte le funzioni dell'encefalo". Una condizione dalla quale non si riemerge, mai". 


Un cervello che muore, un corpo che ancora pulsa ma solo perché lo fanno pulsare le macchine, il respiratore, i farmaci. I parenti che aspettano la risposta tremenda, un medico che è testimone infallibile, a presidio di quell'ultimo confine come una sentinella che ha combattuto, più spesso ha vinto ("La rianimazione è un luogo di vita, qui si salvano sette, otto persone su dieci") e qualche volta ha perso. Ma dove abita la morte, professore? "Nel cervello. Il quale si gonfia, per un trauma o una malattia, e la pressione non lascia più entrare sangue e ossigeno. Dopo venti minuti circa, le cellule muoiono e marciscono. L'encefalo si disfa, diventa poltiglia e siamo di fronte a un cadavere che respira artificialmente, però un cadavere senza dubbio". 

Gli ultimi istanti di una vita sono quasi sempre preceduti da quella che tecnicamente si chiama "tempesta neurovegetativa": è il momento in cui, in un certo senso, il cervello si rifiuta di morire anche se è già quasi morto. È il punto di non ritorno che il medico rianimatore segue e accompagna, avendo prima tentato tutto il possibile per evitarlo. "È l'ultima scarica di adrenalina, manifestata da un picco di segni: alterazione del ritmo cardiaco, ipertensione, una sorta di estrema codata del pesce ormai quasi senza ossigeno". Da lì in avanti si è morti anche se non lo è il cuore, non ancora. 

Nell'ufficio del professor Donadio c'è una macchinetta per l'espresso. "Porto qui i parenti, preparo il caffè e accendo il computer". Ecco l'arcipelago della morte blu. "Parlo con loro, spiego con le immagini e mi rendo conto di quanto sia difficile accettare non dico la fine, ma la fine di un corpo che è ancora caldo, che sembra solo dormire, che fa la pipì. Duemila persone sono in quello stato ogni anno in Italia, 200 mila nel mondo e mai nessuno si è svegliato, perché è impossibile". 

Cosa succede quando il medico deve scostarsi e far passare la fine? Come la certifica? Come ne prende atto, senza tema di smentita? "Ogni malattia cerebrale, così come ogni malattia, ha una storia clinica. Io la conosco e parto da lì. Poi verifico l'assenza di determinati riflessi. Illumino l'occhio, e la pupilla non si restringe. Tocco la laringe, e niente tosse. Verso dell'acqua gelata nel timpano, e l'occhio resta immobile. Oltre, naturalmente, all'assenza di respiro spontaneo. L'osservazione di questi dati dura sei ore e viene ripetuta per tre volte. Si effettuano gli elettroencefalogrammi e i riflessi del tronco, lo fanno il rianimatore, il neurologo e il medico legale. Se è il caso si procede alla scintigrafia, ma certamente il percorso è segnato. Una cosa diversissima dal coma, dove il cervello non funziona ma è ancora vivo. Qui, lo ripeto, si tratta di cadaveri". 

Torniamo per un momento davanti alla macchinetta del caffè. La luce del giorno entra filtrata, qui al terzo piano, nello studio del primario. Un pacchetto di Gauloises sulla scrivania, le foto della moglie e dei tre figli alle pareti, un crocifisso, un'icona. Sulle sedie, i parenti di quel cadavere che ancora respira. Capiranno? Perché in quei momenti si parla anche di donazione d'organi. "In tutti questi anni non ho trovato un solo individuo che non abbia capito, poi elaborare il lutto è un'altra faccenda. Mi chiedono se il loro caro è morto davvero, se è stato fatto il possibile e se c'è trasparenza nell'assegnazione degli organi, in caso di eventuale donazione. Le tre risposte sono altrettanti sì. Al massimo, il parente dice: aspettiamo il miracolo. E io pacatamente rispondo, da credente tra l'altro, che il miracolo non contempla la resurrezione". 

In quella terra di nessuno che è la vita sospesa, in realtà una vita già morta che però mantiene alcuni preziosissimi organi, si inserisce il gigantesco tema dei trapianti. Che in Italia nel 2007 sono stati 3.020, per un totale di 1.084 donatori. Il dottor Riccardo Bosco, anestesista, è il responsabile del coordinamento prelievi della regione Piemonte. "Abbiamo una rete di coordinatori locali, specialisti che si occupano di donazioni e dei rapporti con le famiglie dei defunti. Prima di tutto, però, conta la formazione: e noi la facciamo per il nostro personale, compresi i centralinisti e gli addetti alle pulizie". Le ultime polemiche sulla morte cerebrale vi complicheranno il lavoro? "È presto per dirlo. Di sicuro dovremo informare sempre meglio, usando anche quel grande strumento che è Internet". Navigando nel sito "www. donalavita. net" è possibile saperne di più. 

"Lo confermo, le persone che puliscono le nostre sale operatorie sanno perfettamente cos'è la morte cerebrale". Maurizio Berardino, camice celeste (è appena salito dal reparto) è il primario di rianimazione della neurochirurgia delle Molinette. Anche lui, ogni giorno, sentinella sul confine della morte. "La quale, non ho dubbi, abita là dove non si può tornare indietro. Il cuore è un muscolo, il cervello è la sede della nostra identità biologica. La morte cerebrale non ci coglie mai di sorpresa, è un evento atteso che si sviluppa con passaggi segnati e prevedibili, non è un arresto cardiaco. Ma questi reparti non sono l'anticamera dell'obitorio, qui si salvano migliaia di persone e si lotta per garantire la qualità della vita migliore possibile a chi sarà dimesso. Il vero problema è l'ignoranza, è non sapere di cosa stiamo parlando. In fondo, la medicina è fatta di cose semplici". Ma la morte, dottore, la morte del cervello si vede arrivare? "È quell'ultima scarica di adrenalina, è quella tempesta. Il problema diventa raccontarlo alle famiglie, dando loro il tempo di abituarsi all'idea. Spesso bastano quarantotto ore, altre volte non sarà sufficiente un'intera vita". 

Macchine che soffiano come il respiro, monitor che pulsano con gentilezza. Ma poi cosa succede, professor Donadio? Come si varca la soglia ultima, un minuto dopo le sei ore di osservazione? "In quel momento, il medico è di fronte a un preparato biologico dagli occhi in giù. Faccio sempre un esempio: quando muore una nonna in corsia, mica si tiene la flebo nella vena, dopo. Per la morte cerebrale è lo stesso: si staccano i tubi". A quel punto, l'ultimo secondo di vita del cervello è già trascorso, non quello del cuore. "Io spengo il monitor. Perché mi sembra un'inutile agonia anche visiva, quell'onda elettrica sul monitor che perde il passo". 

Siamo alla fine, adesso sì. "Il cuore, anche senza il respiro continua a battere di norma per cinque o sei minuti, che nel caso dei giovani possono diventare venti. Ma quella, da molte ore non era più una persona viva". Perché poi l'ultimo passo è sempre il penultimo. Restano ben vivi coloro che soffrono la perdita. Resta il dovere e il bisogno delle parole per dirlo, per rispondere e chiarire, per confortare. "Però le persone capiscono. Io gli voglio bene, ma bene sul serio, e loro lo sanno". 



(5 settembre 2008)

1 commento:

maurizio abbà ha detto...

Tematica molto delicata,
una delle più delicate,
...la più delicata.
Occorre sentire pareri "tecnici" per poter
esprimere considerazioni appropriate,
fuori da ogni schema preconfezionato
e senza farsi fuorviare da ideologie di ogni tipo.

Fare silenzio, per iniziare ad informarsi,
per comprendere, almeno qualcosa.
Poi fare domande,
poi...
ancora silenzio meditativo.