mercoledì 2 aprile 2008

Gherardo Segalelli "Attualità di un eretico"

GETTA IL TUO PANE...
di Tavo Burat

Fra Salimbene de Adam, di nobile stirpe, si presentava nella sua Chronica quale "sacerdote e predicatore", qualificando Gherardino Segalello "di famiglia di basso rango", "illetterato e laico, idiota e stolto" e stigmatizzava il mentecatto fondatore degli Apostolici per varie indegne pagliacciate e per atti sconsiderati: per esempio, "venduta la sua casetta e intascatone il ricavato", anziché darlo ai poveri secondo il consiglio del Signore, "lo aveva gettato ai ribaldi che stavano a giocare sulla piazza". Ma chi dice a fra Salimbene che si trattava proprio di ribaldi? E se fossero stati semplicemente poveri, come coloro che furono beneficati da Francesco d'Assisi e da Valdesio da Lione? Comunque, egli avrebbe dovuto qualificare, con coerenza, come insensato anche il Qoelet quando riporta questo comando: "Getta il tuo pane sulle acque, perché dopo molto tempo lo ritroverai. Fanne parte a sette, ed anche a otto, perché tu non sai che male può avvenire sulla terra" (Ecclesiaste, 11:1-2). Versetti piuttosto incompresi, e imbarazzanti, per alcuni esegeti biblici benpensanti, che qui travisano il messaggio della Scrittura, non accettandone il paradosso, lo scandalo. Tant'è vero che la traduzione interconfessionale in lingua corrente, interpreta il primo versetto così: "Investi i tuoi beni nel commercio marittimo e a suo tempo li ritroverai" . Una grossa sciocchezza, come la definisce il teologo riformato Jacques Ellul (La raison d'être. Méditation sur l'Ecclesiaste, Seuil, Paris 1987, p. 182): infatti, è assurdo ritenere che Qoelet dia consigli di commercio redditizio, nella sua prospettiva di pensiero globale. In realtà, si tratta di un precetto che va oltre quello ben noto di non economizzare, di non prevedere ("Osservate gli uccelli del cielo. I gigli dei campi.", Matteo 6:26-28): qui si tratta, addirittura, di "gettare via", senza ragione, dunque di "sprecare": un atto incomprensibile, scandaloso, proprio come quelli Segalelloani severamente disapprovati dal perbenista fra Salimbene. Certo, non si tratta dello spreco di chi agisce così per vana gloria, o per incoscienza perché non sa ciò che fa.

Questo "getta il pane" significa, invece, il contrario: un'estrema consapevolezza dell'atto, una volontà, una desacralizzazione del "valore", ed un distacco. Ancora: non si tratta di giustificare lo sciagurato spreco della nostra società consumistica, lo scialo di beni che potrebbero essere utili, persino indispensabili, agli altri; e neppure lo sperpero delle risorse non rinnovabili del nostro pianeta. Non è la dilapidazione effettuata dal prodigo, dallo sprecone, dall'ozioso, dal debole. Qoelet si rivolge a chi naturalmente vorrebbe economizzare, prevedere, ma si trova innanzi a questo scoglio: "getta il tuo pane". Impara a compiere le cose adesso, e gratuitamente. E' proprio la gratuità dell'atto ad essere decisiva. Soltanto l'atto gratuito non è havel, "velo di vapore", vanità. Fa un gesto contrario all'abituale, al normale. Fa questo gesto senza calcolo, senza timore, senza preoccuparti. Impara a separarti da ciò che ti è indispensabile (il pane!). E impara al tempo stesso a compiere gli atti che i benpensanti giudicano più aspramente. Un atto di questo genere è, necessariamente, oggetto di scandalo. In un mondo dove tutto deve essere utile, deve "servire" (almeno in apparenza, secondo i criteri di efficacia della società), impara a fare un gesto inutile. "Ma ciò non serve a nulla!". Appunto.

Pensiamo allora all'immensa quantità di azioni "utili" che ci bloccano, sempre più, nella catastrofe; ed a quegli altri gesti, giudicati vani (hippies o pacifisti), alle preghiere, alle devozioni solitarie, che permettono al mondo di sopravvivere. Pensiamo al Seme sotto la neve di Ignazio Silone.

Dopotutto, perché dovremmo fare soltanto ciò che serve? Impara ad agire senza motivazione, semplicemente perché Dio lo ha detto. Un gesto che non attende ricompensa. Non si dice: "Così salverai l'anima tua". No. Ma c'è un'osservazione importante, da ascriversi all'ironia dell'Ecclesiaste: tu lo ritroverai, quel pane gettato nel fiume, che tu credevi perduto, portato via sul filo della corrente. Lo ritroverai, in futuro. Avrai ancora del pane, quello o un altro. Il pane economizzato, "accumulato", non ti servirà. Il pane gettato oggi, lo ritroverai domani, quando non ci penserai più, e forse neppure te ne ricorderai. Non preoccuparti, non dartene pensiero.

Innanzi tutto, quindi, impara a "gettare", a non prevedere, a non accumulare. Poi, dopo, impara a donare ed a condividere. Il dopo viene in seguito: prima, devi imparare a distaccarti da quanto donerai. "Fanne parte a sette, ed anche a otto, perché tu non sai che male può venire sulla terra". Non sono le cinquemila persone della moltiplicazione dei pani, ma i cinque pani ed i pesci. dunque è a nostra misura, benché ci sembri comunque impossibile: come può un pane servire a sette o ad otto? Eppure. "Poiché tu non sai che male può venire sulla terra": domani, potresti non essere più in condizione di donare, di amare il tuo prossimo; se tu non puoi fare più nulla per l'altro, l'amore è parola vana, havel, nuvoletta di vapore?. Non perdere tempo: oggi ti è possibile, puoi gettare il pane, sbrigati, senza far calcoli, senza misurare, senza spirito di avarizia. Non fare calcoli per il domani, è oggi che devi agire. Non ignoriamo ciò che potrà o dovrà accadere. Un movimento pacifista riuscirà davvero ad ottenere la pace? Le nostre scelte ("eresie"!) economiche (il condono dei debiti del Terzo Mondo, ad esempio) sapranno rispondere alla miseria che affligge gran parte della Terra? Scelte politiche diverse (eresie!) assicureranno davvero un Governo più giusto, un'Amministrazione più efficiente?

Non lo sappiamo. Ma tutto ciò che riteniamo di fare, facciamolo; alla fine un risultato ci sarà. Ma quale? Sarà pur sempre relativo. senza altro vantaggio di poter donare agli altri, e gettare il tuo pane sulle acque. In questo "scandalo" (tale per il benpensante fra Salimbene) è la grandezza di un autentico francescano, "radicale", libero e testardo, "disobbediente", "sprovveduto" quale fratello Gherardino.

Un tempo per piangere e un tempo per ridere.

Il nome della rosa di Umberto Eco è un "giallo di libri": l'assassino, o meglio lo strumento dell'assassino, è un libro: un supposto trattato ancora ignoto di Aristotele sul riso. Jorge, il frate bibliotecario, non voleva che quel testo venisse conosciuto, perché "il riso è debolezza, la corruzione, l'insipidità della nostra carne. E' il sollazzo per il contadino, la licenza per l'avvinazzato, anche la chiesa nella sua saggezza ha concesso il momento della festa, del carnevale, della fiera, questa polluzione diurna che scarica gli umori e trattiene da altri desideri e da altre ambizioni. Ma così il riso rimane cosa vile, difesa per i semplici, mistero dissacrato per la fede (.). Il riso libera il villano dalla paura del diavolo, perché nella festa degli stolti anche il diavolo appare povero e stolto, dunque controllabile. Ma questo libro potrebbe insegnare che liberarsi dalla paura del diavolo è sapienza. Quando ride, mentre il vino gli gorgoglia in gola, il villano si sente padrone, perché ha capovolto i rapporti di signoria (.). Il riso distoglie, per alcuni istanti, il villano dalla paura. Ma la legge si impone attraverso la paura, il cui nome vero è il timor di Dio. E da questo libro potrebbe partire la scintilla luciferina che appiccherebbe al mondo intero un nuovo incendio: e il riso si disegnerebbe come l'arte nuova, ignota persino a Prometeo, per annullare la paura. Al villano che ride, in quel momento, non importa di morire; ma poi, cessata la sua licenza, la liturgia gli impone di nuovo, secondo il disegno divino, la paura della morte. E da questo libro potrebbe nascere la nuova e distruttiva aspirazione a distruggere la morte attraverso l'affrancamento della paura. E come saremmo, noi creature peccatrici, senza la paura, forse il più provvido, e affettuoso dei doni divini? (.) Da questo libro deriverebbe il pensiero che l'uomo può volere sulla terra l'abbondanza stessa del paese di Cuccagna".

E a frate Guglielmo (il minorita che gli teneva testa, ed aveva scoperto i suoi crimini) Jorge diceva poi: "Sei un giullare, come il santo che vi ha partoriti. Sei come il tuo Francesco che de toto corpo facebat linguam, che teneva sermoni dando spettacoli (.), e imitava con un pezzo di legno i movimenti di chi suona il violino, che si travestiva da vagabondo per confondere i frati ghiottoni, che si gettava nudo sulla neve, parlava con gli animali e le erbe, trasformava lo stesso mistero della natività in spettacolo da villaggio, invocava l'agnello di Bethelhem imitando il belato della pecora.".

Gherardo, dunque, "giullare" come Francesco. Se fosse vissuto mezzo secolo prima, forse lo avrebbero santificato. Se Francesco fosse vissuto ottant'anni dopo, forse lo avrebbero mandato al rogo. Gherardino fu condannato al fuoco, facendo la fine di quel libro sul riso. Giullare, facendo ridere liberava la gente dalla paura. Rideva con Dio. Irrideva il potere. Per questo fu arso vivo, il 18 luglio 1300, a Parma, in "Gèra".

Tra lui ed il suo successore, Dolcino da Prato Sesia (Novara), sembra ci siano forti discrasie.

Il movimento apostolico con Gherardino era acefalo, anarchico, poiché l'Ozzanese non volle mai essere il capo. Con Dolcino, lo stesso movimento si presenta invece strutturato, con un organigramma, al cui vertice era egli stesso. Occorre tuttavia tener conto che sino alla fine del XIII secolo, gli Apostolici, se pur criticati, ed anche osteggiati e minacciati, non furono perseguitati, arrestati, torturati; soltanto dopo il rogo di Gherardino si scatenò la repressione feroce e si mandarono al rogo uomini e donne. A la guerre comme à la guerre : Dolcino fece di necessità virtù, e dovette fornire il movimento di un'organizzazione centralizzata ed efficiente, che agiva grazie ad una rete di simpatizzanti, attivi nelle campagne e nelle città, con un seguito non soltanto di contadini, ma anche di artigiani, commercianti, benestanti. Dolcino porterà innanzi l'autodesignazione degli Apoostolici come depositari della missione di costruire una nuova Chiesa, e di essere pertanto i promotori, più che di una "Riforma", di un cristianesimo essenzialmente alternativo.

Le differenze tra il periodo Segalelloano e quello dolciniano del movimento apostolico, sono documentate dalle deposizioni di Zaccaria di Sant'Agata, il quale fu processato nel 1299, dunque prima che Dolcino comparisse sulla scena (1300), e poi, relapso, ancora nel 1303 quando finirà al rogo, e il successore di Gherardino aveva dato un nuovo volto ed un altro impulso al movimento.

Con l'Ozzanese, l'opposizione alla Chiesa romana non è ancora scismatica, ma rigorista, in nome di un ritorno ai dettami evangelici, della povertà volontaria e di una visione libertaria e democratica della Chiesa, dove non c'è distinzione di classi, né di cultura né tra uomini e donne. La questione sessuale non è vista da Gherardo, e neppure da Dolcino, in chiave di "peccato", ma di libertà, giustificata dall'ispirazione alla perfezione, e non repressa dalla paura di una condanna canonica e divina.

Anche il Segalello è millenarista, in quanto, dalle testimonianza processuali bolognesi, sappiamo che i seguaci cantavano "Il Regno di Dio è vicino" (Matteo 3.2; 4.17; 10.7), e gli inquisiti più volte confermano questa convinzione. Il pensiero dolciniano permane all'interno della concezione esistenziale Segalelloana; le scansioni temporali gioachimite vengono riprese, ma sistemate in una nuova dinamica e, come sostiene Corrado Mornese, a quelle concezioni subentra una teosofia della storia, e la teoria diventa, con Dolcino, prassi politica.

Rimane la visione democratica della Chiesa "altra", anche se non è più acefala: il leader si rivolge a tutti coloro che, anche se "rozzi o incolti, sanno distinguere il bene dal male". Il conflitto con la Chiesa romana si radicalizza: essa è apostata, addirittura meretrice; Roma, nuova Babilonia, sarà punita da Dio; la gerarchia sarà sanguinosamente eliminata da uno strumento laico quale il nuovo Federico.

La maggior discrasia rilevata storicamente in Dolcino rispetto al Segalello, è evidenziata dalla lotta armata che costituirebbe (1305-1307) la nota saliente, e caratterizzante rispetto anche agli altri movimenti pauperistici coevi.

Ma a nostro avviso, si incorre così in un travisamento storico. I Dolciniani non avevano alcuna vocazione guerrigliera; infatti, quando nel 1303 le prime repressioni iniziarono nel Trentino, con il rogo di un uomo e due donne - una delle quali era la moglie del fabbro fra Alberto da Cimego, il più autorevole seguace locale di Dolcino - essi abbandonarono, senza opporre resistenza alcuna, le valli dove avrebbero potuto disporre di rifugi e contare su appoggi popolari. Giunto nel 1304 alle porte della lontana Valsesia, Dolcino, "con alcuni suoi seguaci" , si mise a predicare passando di casa in casa, con un comportamento non certo da capo guerrigliero. Poco dopo, nel 1305, le cronache ci dicono che nell'alta valle i dolciniani diverranno esercito forte ed agguerrito. Come fu possibile che "alcuni predicatori", con al seguito donne, bambini ed anziani, si siano in un anno trasformati in numerosissimi ribelli indiavolati, capaci, all'arma bianca, di compiere scorrerie a scapito di gente montanara che i feudatari mai riuscirono a domare completamente; e nel contempo di contrastare gli assoldati di mestiere, ingaggiati dai vescovi di Vercelli e di Novara che avevano provveduto a chiudere gli ingressi in valle con posti di blocco? Come riuscirono a transitare nel Biellese e giungere al Monte Rubello "per vie sconosciute, innevate, nottetempo"?

In realtà, la guerriglia fu fatta dalla comunità montanara dell'alta valle, gelosa delle proprie autonomie, insofferente della presenza di magistrati e di soldataglia alle dipendenze dei vescovi-padroni di Vercelli e di Novara; "alternativa" in economia e nel vivere civile, alla società dei grossi centri borghesi della pianura, strumenti del potere vescovile in progressiva espansione. I montanari da sempre usi alle armi per procacciarsi il cibo con la caccia e per contrastare le prepotenze dei feudatari, avevano accolto e protetto gli Apostolici, il cui progetto evangelico, egualitario e fraterno, era del tutto omologo al loro vivere solidale e comunitario.

I dolciniani pertanto confluirono nella ribellione montanara; vi si fusero, probabilmente diventandone i dirigenti: ma pur sempre nella convinzione di lottare per l'avvento del Regno di pace, giustizia e amore che Gherardino ed i suoi sentivano vicino.

La storiografia non comprese questa continuità, né seppe individuare nella lotta armata quanto era dei montanari ribelli, e quanto di Dolcino. Lo capì invece il Movimento operaio che dalla seconda metà del secolo XIX "rivendicò" l'apostolo del "Gesù socialista", il "grande precursore" che seguì il percorso della croce nel destino dei montanari ribelli, sino al martirio, come poco più di due secoli dopo farà Tommaso Müntzer con i contadini di Germania.

Nel 1907, VI centenario del terribile supplizio di Dolcino e di Margherita, diecimila operai valsesiani e biellesi innalzarono, in vetta al Monte Massaro, nei luoghi dell'ultima resistenza, un obelisco alto 12 metri, che vent'anni dopo i clerico-fascisti faranno saltare. Sulla Casa del Popolo, sempre nel 1907, in Vercelli venne murata una lapide (nascosta poi durante il regime fascista, ritrovata una dozzina d'anni or sono, e finalmente apposta un mese fa nell'androne dell'Assessorato alla Cultura del Comune di Vercelli, all'ingresso della ex chiesa di S. Chiara, nel corso principale della città), le cui parole testimoniano la continuità pacifista da Gherardo a Dolcino:

A Fra Dolcino

Qui in Vercelli

Dalla tirannide sacerdotale attanagliato ed arso

Il 1° giugno 1307

Per aver predicato

La pace e l'amore tra gli uomini

Oggi che l'antica speranza

Rivivente nei secoli

Sta con la nuova éra

Per diventare realtà

1° giugno 1907



Mi sia ora consentito ringraziare, a nome del Centro Studi Dolciniani e della Rivista Dolciniana, l'Amministrazione Comunale di Collecchio per aver patrocinato questo convegno; e di esprimere l'auspicio che oggi, quando anche il Capo della Chiesa di Roma confessa il peccato delle passate persecuzioni, ed il pluralismo religioso è una nuova realtà nella società italiana che accoglie immigrati di altre civiltà, si voglia degnamente ricordare, qui nel suo paese natale, il Segalello, il più mite e poetico di tutti coloro che testimoniarono sino all'estremo sacrificio, la fedeltà ai princìpi di libertà, eguaglianza e fraternità che l'amore del Cristo indicò agli uomini.

Voglio pure rendere merito a coloro che in questi anni contribuirono a riabilitare fra Gherardino: innanzi tutto a Rino Ferrari, che con il suo libro dedicato al "libertario di Dio" inaugurò nel 1977 la serie delle pubblicazioni del Centro Studi Dolciniani; allo storico amico Carlo Fornari, autore del prezioso Frati, antipapi ed eretici parmensi protagonisti delle lotte religiose medievali (1994), ed al prof. Luigi Spaggiari, che con il suo recentissimo romanzo Il giullare del vescovo ha fatto rivivere il mondo della società parmense dal 1260 al 1300.

Personalmente, debbo infine confessare il mio debito nei confronti di Gherardo e Dolcino.

Non avevo avuto interessi "religiosi", finché grazie a questi due "eretici" ho scoperto la differenza tra "religione" (che lega) e "fede" (il vangelo, che libera). Dietrich Bonhoeffer, teologo protestante impiccato a Buchenwald due giorni prima della Liberazione, lasciò scritto che il cristiano è al massimo grado libero, laico. quel "laico" che per fra Salimbene era un attributo da affiancare a "illetterato, idiota e stolto".

Se le vie del Signore sono infinite, il mio sentiero, che mi ha condotto alla chiesa valdese, passa dal Monte Massaro e dalla Segalara di Ozzano Taro.

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