giovedì 10 aprile 2008

Dolcino, civiltà montanara e autonomia bioregionale - Seconda parte - di Tavo Burat

Per le alti valli di cui stiamo parlando, possiamo rilevare che la tradizione culturale formatasi durante l'età finale del bronzo e del ferro, sta tramontando soltanto con i nostri nonni o addirittura con i nostri padri (la prima Guerra Mondiale può essere considerata lo iato), come dimostra lo studio delle tradizioni popolari che hanno tramandato sino ad oggi antichissime ritualità.
Oltre alla vicìnia, esisteva un'altra organizzazione comunitaria, la cui importanza è sfuggita agli studiosi di Diritto italiano, in quanto nelle documentazioni comunali se ne trovano soltanto labili tracce molto frammentarie: si tratta di quella che era chiamata (in Piemonte, ma non solo) la Badia, o Abbadia: corporazione che in origine riuniva i giovani dal comune periodo di "spupillamento", gelosa custode delle ataviche libertà e della "cultura" orale alternativa: lo stesso nome di "Abbadia" appare come una sfida alla cultura ufficiale, "scritta", quella codificata nelle Abbazie del monachesimo medievale. Le "Badie" strenuamente difendevano i più remoti ordinamenti e costumi comunitari, tramandati nelle feste stagionali, quali i carnevali ed i maggi, e furono alla base del tuchinaggio. Le competenze stesse di queste corporazioni, ovvero l'organizzazione della vita comunitaria, delle antiche regole, delle feste, della difesa del territorio e dei suoi confini, divengono quindi eredità vivente e ragione storica delle insorgenze montanare e contadine del Piemonte. Infatti, tutte le insurrezioni e le rivolte contadine mirarono a ristabilire norme e valori infranti nel passato[1]. I "coscritti" ed i "comitati" per il Carnevale, i grandi pasti comunitari (fagiolate, polentate, risotti ecc.) sono "reliquie" delle Badie; molte di esse furono cattolicizzate e divennero confraternite (alcune tuttora armate, come quella di Barbania nel Canavese): i capi, gli abà, si trasformarono in "priori" o addirittura santificati: Euseo, strano santo valsesiano di cui si racconta che morì per la vergogna di essere stato costretto dai giovani ad indossare abiti carnevaleschi, fu con ogni probabilità un abà; il suo santuario è eretto su un masso erratico, all'imbocco della Valsesia, e colà vi è una grande coppella nella roccia, che raccoglie l'acqua piovana e che funge da terapeutica acquasantiera. E così, io sono convinto che Milano Sola, il "ricco contadino" di Campertogno (ma si poteva essere "ricchi contadini" nell'agricoltura di sopravvivenza che caratterizzava la località agli inizi del XIV secolo?), che "invitò" Dolcino ed i suoi in alta Valle, altri non era se non un abà, un autorevole capo dei giovani di Campertogno alle armi, che manifestò l'invito decretato, come era negli usi, dalla assemblea della vicìnia. La funzione delle Badie nelle insorgenze rustiche, apparirà macroscopicamente nel tuchinaggio, iniziato in Occitania, nel Massiccio Centrale, a seguito della predicazione di un francescano dissidente, Jean de la Rocquetaillade, cinquant'anni circa dopo il rogo di Dolcino e di Margherita; ripreso nel Biellese con la cattura del vescovo da parte dei giovani del Piazzo nel 1377, nel Canavese dal 1380 alla metà del XVI secolo.[2]
Come abbiamo più volte sostenuto, la comunità cristiana che Dolcino ed i suoi seguaci proponevano come preconitrice del "Regno" era del tutto speculare, omologa, a quella dei montanari specie dell'alta valle non soggetta alle influenze mercantili della pianura: infatti vi si riscontrano i medesimi valori fondamentali: solidarietà e fratellanza, comunione dei beni, rifiuto di ogni tipo di balzello (taglie, o decime che fossero), parità uomo-donna, nessun servo nessun padrone, ma Dio unico "Signore"; rifiuto del denaro (si pensi al fondatore del movimento Apostolico, predecessore di Dolcino, quel Gherardino Segalello, "libertario di Dio" che gettò via i denari, francescano anarchico, salito al rogo l'anno 1300 a Parma) poiché l'economia era fondata sul servizio comunitario e sul baratto... Dolcino testimoniava nel messaggio evangelico radicale la validità dell'ordinamento giuridico alpino, rivitalizzato dai Longobardi e minacciato dal Diritto Romano che montava dai centri urbani della pianura. La "crociata", invece, era la messa in opera di uno strumento oppressivo per l'affermazione dei princìpi antitetici: gerarchia; privilegi riconosciuti ai Signori feudali, laici o ecclesiastici che fossero; la donna considerata veicolo diabolico; la moneta sonante, anziché il libero scambio.
La sconfitta di Dolcino segnerà l'inizio della fine della civiltà alpina: alla luce del sole rimarrà l'ordinamento giuridico latino; ai "resistenti" resterà il buio dei boschi e della notte, dove troveranno rifugio i banditi; le donne "vestali" dell'antica cultura agreste diventeranno "streghe". Le fate giovani e belle saranno tramutate dalla cultura vincente in vecchie malefiche megere. La pratica del libero scambio in sfida alla legge sarà dei contrabbandieri.
Le alte valli alpine presenteranno nella loro decadenza economica, politica e sociale tutti i caratteri delle colonie, così come appaiono nel Terzo Mondo[3]: le materie prime prodotte (si pensi ai metalli, cominciando dall'oro, ma anche all'acqua, bene quanto mai prezioso), sono consumate e trasformate nelle metropoli; le popolazioni sono territorialmente divise con confini estranei alla loro realtà economica sociale (le etnie alpine sono le medesime nei due versanti: provenzali o occitani, francoprovenzali, walser, retoromanci o ladini, tirolesi, carinziani, sloveni, .. ); le valli costituiscono una grande riserva di mano d'opera (serve, e poi operai) e di buoni soldati; il sistema viario di comunicazione da orizzontale tra valle e valle, sostituito da quello a raggiera che parte dai centri metropolitani per facilitare la pianurizzazione delle attività economiche; il capitale locale sparito, è sostituito da quello dei metropolitani, che a poco a poco si impadroniscono della terra (turismo speculativo che espelle gli indigeni); la produzione agricola, artigianale, soppiantata da quella industriale metropolitana; gli indigeni considerati culturalmente alienati, minus habentes e gli idiomi che esprimono la loro cultura bistrattata, degradati da valore "lingua" a "minus-valore" dialetto, da estirpare e buttare (la rapina del minus-valore, dopo quella del plus-valore!). Economia, cultura e lingua delle élites metropolitane si impongono sempre più nelle periferie: quanto è "alternativo", resistente alla globalizzazione, viene via via sospinto ai margini, o buttato a mare (come avvenuto nelle aree celtiche: in Scozia, Galles, Irlanda; Bretagna e per quella occitana, in Francia) dalla potenza economica metropolitana (di Londra o Parigi[4]); da noi la "resistenza" è compressa contro le montagne, nelle Valli, sempre più in alto. Laddove i popoli indigeni non concordano con i piani elaborati dalle élites, che mistificano il proprio interesse facendolo apparire "progresso" tout court, essi possono essere sempre rappresentati quali terroristi pericolosi, primitivi, gretti egoisti, ostacolo allo sviluppo[5]. E' l'inversione dell' etica: colto, aperto e positivo il "cittadino"; ignorante e rozzo, testardo e meritevole al più di "conversione" di "emancipazione", quando non di severa condanna, il montanaro, "villano" insomma: un "eretico", cui un tempo spettava l'abitello giallo o il rogo, ed oggi il disprezzo sociale del benpensantismo cittadino. E' l'antica favola del lupo a monte e del povero agnello a valle, colpevole di aver intorbidito l'acqua ...

[1] Cfr. G. Cìola - A. Colla - C. Mutti - T. Mudry, Rivolte e guerre contadine, Soc. ed. Barbarossa, Milano 1994
[2] Cfr. Piero Vanesia, Il Tuchinaggio in Canavese ( 1386 – 1391), Società accademica di storia Canavesana, Ivrea, 1979; sulle "Badie": G.C Pola Falletti - Villafalletto, Associazioni Giovanili e feste antiche, Vl. 1°, Torino, 1979 (in particolare alle pp. 71, 208, 468 e 55, 473, 480), Tavo Burat, Il Tuchinaggio occitano e piemontese, in Banditi e ribelli dimenticati. Storie di irriducibili al futuro che viene, a cura di Corrado Mornese - Gustavo Buratti, Lampi di Stampa ed., Milano 2006.
[3] Cfr. Gustavo Buratti, Decolonizzare le Alpi, in Autori vari, Prospettive di vita dell'arco alpino. Interventi di uomini di studio e d'esperienza del passato, il presente e il futuro delle Alpi, Jaca Book, Milano 1981 pp. 64 - 80; in appendice la Dichiarazione dei rappresentanti delle popolazioni alpine 19-12-1943. Si tratta della cosiddetta "Carta di Chivasso", con la quale quattro esponenti della Resistenza delle Valli valdesi e due valdostani, tra i quali Emile Chanoux che ne fu l'ispiratore, preconizzavano per le vallate alpine autonomie politiche, amministrative, culturali e scolastiche, anticipando di un trentennio la filosofia e le istanze poi elaborate da Gary Snyder, Kirkpatrick Sale e dagli altri bioregionalisti.
[4] Cfr. Daniel Nettle - Suzanne Romaine, Voci del Silenzio. Sulle tracce delle lingue in via di estinzione, Carocci ed., Roma 2001
[5] Si veda per esempio la vicenda del montanaro grigionese Marco Camenisch, condannato per ecoterrorismo, narrata, come in autobiografia, a cura di Piero Tognoli, Achtung Banditen! Marco Camenisch e l'ecologismo radicale, Nautilus, Torino, 2004; e a cura di C. Mornese e G. Buratti, Banditi e ribelli dimenticati, cit.

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